Rise della mia logica, ma sembrava una reazione nervosa e preoccupata.
«Va tutto bene, Bella. Respira a fondo».
«Era così vero», singhiozzai. «Volevo che fosse vero».
«Raccontamelo, magari ti aiuta».
«Eravamo sulla spiaggia...». M’interruppi e con gli occhi gonfi di pianto mi voltai a guardare l’espressione ansiosa sul suo viso d’angelo, appena visibile al buio. Lo fissavo rimuginando, mentre l’irragionevole marea di dolore iniziava a rifluire.
«E?», disse lui impaziente.
Straziata, battei le palpebre per asciugare le lacrime. «Oh, Edward...».
«Raccontami, Bella», m’implorò con lo sguardo inquieto e preoccupato per il dolore che avvertiva nella mia voce.
Non ci riuscivo. Gli serrai di nuovo le braccia al collo e con un gesto febbrile incollai le labbra alle sue. Non era desiderio ma dolore, acuto fino a far male. La sua risposta fu immediata e altrettanto il rifiuto che ne seguì.
Lottò contro di me con tutta la delicatezza possibile, sorpreso, e mi tenne lontana afferrandomi le spalle.
«No, Bella», insistette, guardandomi come temesse che fossi impazzita.
Lasciai cadere le braccia, sconfitta, mentre le lacrime inspiegabili scendevano come un torrente fresco sul mio volto e l’ennesimo gemito mi riempiva la gola. Aveva ragione, forse ero pazza.
Mi fissò con occhi confusi, tormentati.
«S-s-scusa», mormorai.
Ma lui mi strinse a sé, serrandomi contro il suo petto marmoreo.
«Non posso, Bella, non posso!», ansimò pieno d’angoscia.
«Per favore», dissi, la mia preghiera attutita dalla sua pelle. «Per favore, Edward».
Non so se a commuoverlo fossero state le lacrime che mi facevano tremare la voce, se il mio attacco improvviso l’avesse colto alla sprovvista, o se il suo bisogno in quel momento fosse semplicemente insopportabile quanto il mio. Qualunque fosse la ragione, riavvicinò le mie labbra alle sue e si arrese con un gemito.
E ricominciammo da dov’era finito il mio sogno.
Il mattino dopo, al risveglio, restai totalmente immobile e cercai di mantenere il respiro regolare. Avevo paura di aprire gli occhi.
Ero sdraiata sul petto di Edward, che stava immobile senza abbracciarmi. Cattivo segno. Avevo paura di ammettere che ero sveglia e di affrontare la sua rabbia, con chiunque ce l’avesse.
Sbirciai con cautela dagli occhi socchiusi. Edward fissava il soffitto scuro, le mani dietro la testa. Mi appoggiai a un gomito per guardarlo meglio: il suo viso era rilassato, inespressivo.
«Quanto brutta me la sto passando?», domandai a mezza voce.
«Tantissimo», disse, ma voltò la testa con un sorriso ammiccante.
Sospirai di sollievo. «Mi dispiace, davvero», dissi. «Non volevo... Be’, non so bene cosa sia successo stanotte». Scossi la testa al ricordo delle lacrime irrazionali, del dolore straziante.
«Non mi hai ancora detto cosa stavi sognando».
«È vero... però mi sembra di avertelo dimostrato». Feci una risata nervosa.
«Ah», rispose Edward. Spalancò gli occhi e batté le ciglia. «Interessante».
«È stato proprio un bel sogno», mormorai. Lui non fece commenti, perciò qualche secondo dopo aggiunsi: «Sono perdonata?».
«Ci sto pensando».
Mi sedetti, pronta a esaminarmi. Se non altro, non mi pareva ci fossero altre piume. Ma non appena mi alzai fui colpita da una strana ondata di vertigini. Vacillai e ricaddi fra i cuscini.
«Ehi... che capogiro».
Mi sentii abbracciare all’istante. «Hai dormito tanto. Dodici ore».
«Dodici?». Strano.
Mi diedi una controllata mentre parlavo, cercando di non farmi notare. Sembravo a posto. I lividi sulle braccia erano ancora quelli della settimana prima, ormai giallastri. Provai con una stiracchiata. Anche quella andò bene. Anzi, più che bene.
«Inventario completo?».
Annuii imbarazzata. «A quanto pare i cuscini sono sopravvissuti».
«Purtroppo non posso dire altrettanto della tua, ehm, camicia da notte». Indicò i piedi del letto, dove mescolati alle lenzuola di seta giacevano brandelli di pizzo nero.
«Peccato», dissi, «mi piaceva».
«Anche a me».
«Altre vittime?», domandai timida.
«Dovrò comprare un telaio nuovo per il letto di Esme», confessò, gettando uno sguardo alle proprie spalle. Lo seguii e restai sorpresa vedendo il lato sinistro della testiera ridotto a pezzi.
«Mmm». Corrugai la fronte. «Secondo te, me ne sarei dovuta accorgere?».
«A quanto pare diventi straordinariamente sbadata, quando la tua attenzione gravita altrove».
«Ero un po’ distratta», confessai, rossa di vergogna.
Sfiorò la mia guancia in fiamme e sospirò. «Questo mi mancherà sul serio».
Osservai il suo viso, in cerca dei segni della rabbia o del rimorso che temevo. Mi restituì uno sguardo pacato, l’espressione calma ma illeggibile.
«
Rise.
«Che c’è?», domandai.
«Hai l’aria di una che si sente in colpa dopo aver commesso un crimine».
«Sì, mi sento in colpa», mormorai.
«Be’, hai sedotto un marito consenziente. Non è un reato capitale».
Sembrava volermi stuzzicare.
Le mie guance si scaldarono. «La parola
«Sì, forse è la parola sbagliata».
«Non sei arrabbiato?».
Abbozzò un sorriso. «Non sono arrabbiato».
«Perché no?».