Avviandosi alla porta girò la maniglia e scostò il battente servendosi della forza telecinetica, come aveva fatto Charles per aprire il cancello della fortezza di Thorstern. Leina lo stava aspettando in soggiorno. Teneva le mani intrecciate sulle ginocchia e aveva gli occhi scintillanti di gioia.
— Sono leggermente in ritardo. — Raven non disse altro, né la baciò. La loro felicità era evidente e non aveva bisogno di futili espressioni fisiche. Non l’aveva mai baciata, non aveva mai desiderato di farlo, né l’avrebbe mai fatto. — Mi sono trattenuto per togliere Kayder dai guai. Prima della mia partenza era necessario metterlo in condizioni di non nuocere. Ora non è più necessario. Le cose sono cambiate.
— Le cose non cambiano mai — disse Leina.
— Mi riferivo alle piccole cose, non alle grandi.
— Sono le grandi che contano.
— Hai ragione, Occhi Lucenti, ma non sono d’accordo su quanto vuoi dire. Anche le piccole cose hanno una loro importanza. — Sotto lo sguardo fermo di Leina, Raven giudicò opportuno giustificarsi — Non vogliamo che si scontrino coi Deneb… ma non vogliamo neanche che si distruggano da soli.
— La seconda soluzione sarebbe il minore dei due mali… Spiacevole, ma non disastrosa. I Deneb non apprenderebbero niente.
— Non potranno mai essere più edotti di quanto sono.
— Può darsi — disse Leina. — Ma tu hai gettato alcuni semi di conoscenza proibita. Prima o poi, sarai costretto a estirparli.
— Intuizione femminile, vero? — Raven sorrise come un bambino malizioso. — Anche Mavis la pensa come te.
— E ha ragione.
— Quando arriverà il momento, i semi potranno venire distrutti, dal primo all’ultimo. Lo sai benissimo.
— Certo. Tu sarai pronto e io sarò pronta. Dove andrai tu verrò anch’io — disse Leina con fermezza. — Tuttavia penso ancora che il tuo intervento non sia stato opportuno. Hai corso un grosso rischio.
— A volte è necessario. Comunque, la guerra è finita. E in teoria l’umanità è ora in condizioni di concentrarsi e di proseguire il suo cammino.
— Perché dici
Raven si accigliò. — Può darsi che si scateni un nuovo e diverso conflitto.
— Capisco. — Leina andò alla finestra e rimase a osservare il paesaggio. — David, in un caso simile, intendi intervenire una seconda volta?
— No, decisamente no. Questa guerra verrebbe scatenata contro quelli che sono della nostra stessa specie e contro quelli ritenuti come noi. Non mi sarà data la possibilità di intervenire. Verrò colpito senza il minimo avvertimento. — Si avvicinò a Leina e le mise una mano sulla spalla. — Potranno colpire anche te, nello stesso modo e nello stesso momento. Ti preoccupa?
— No, finché ogni cosa può rimanere nascosta.
— Potrebbe anche non accadere. — Raven spostò lo sguardo fuori della finestra, e all’improvviso cambiò argomento. — Quando compri le anatre?
— Le anatre?
— Da mettere nello stagno — disse Raven indicando il cratere. — Cos’è successo? — chiese.
— Venerdì pomeriggio, quando sono tornata dalla città, nell’attimo di aprire la porta ho
— Cos’era?
— Una piccola pallina azzurra con un puntino bianco, l’ho vista con la niente. Era messa in modo che introducendo la chiave avrei toccato il punto bianco. L’ho teleportata dalla serratura al campo accanto, poi ho scagliato un sasso sul puntino. La casa ha tremato fino alle fondamenta.
— Il lavoro di un microtecnico — commentò Raven — e del telecinetico che l’ha introdotta nella serratura. — L’ultima frase rivelò di nuovo la sua insensibilità. — Se il trucco fosse riuscito avresti provato una bella sorpresa.
— Ma ci sarebbe stata una persona ancor più sorpresa di me — disse Leina. — Tu.
La notte era eccezionalmente limpida e il cielo era punteggiato di stelle. I crateri che si allungavano sul limite della faccia illuminata della Luna erano perfettamente visibili a occhio nudo. Da un orizzonte all’altro, la volta dello spazio somigliava a un drappo di velluto nero cosparso di punti luminosi, alcuni a luce fissa, altri con bagliori intermittenti di tutti i colori, bianchi, azzurri, gialli, rosa e verde pallido.
Semisdraiato su una poltrona inclinata, sotto la cupola di vetro del tetto, Raven studiava quella scena di incomparabile maestosità. Poi chiuse gli occhi per mettersi in ascolto. Accanto, su una poltrona identica, Leina stava facendo la stessa cosa. Quelle erano le loro notti intime. Sotto la cupola, in osservazione e in ascolto. In quella casa non c’erano camere da letto, né letti. Non ne avevano bisogno. A loro bastavano le poltrone e la cupola.
Anche durante il giorno osservavano e restavano in ascolto. Ma lo facevano con meno concentrazione e in modo più spasmodico, con l’attenzione rivolta al mondo, non alle infinità dello spazio. Insieme avevano osservato e ascoltato, giorno e notte, per anni. Il compito sarebbe stato insopportabilmente monotono, ma erano in due. La presenza dell’uno rompeva la solitudine dell’altro. Inoltre, le cose che loro