Nia fece il gesto dell’espansiva gratitudine. Aprii la porta della cabina. Dentro c’erano Agopian e la Ivanova che giocavano a scacchi.
Agopian alzò lo sguardo. — Siete tornate?
— Uuh. È andato tutto bene. Possiamo recarci al villaggio domani. Tutti quanti.
— Congratulazioni. — La Ivanova rovesciò il proprio re. — Mi arrendo. Non posso fare niente con i miei pedoni.
Agopian sorrise. — Uno dei nostri pedoni è diventato un socialista rivoluzionario e ha convinto gli altri a costituire un soviet, il che significa, naturalmente, che al bianco non sono rimasti comuni soldati.
— E il rosso vince — disse la Ivanova in tono cupo.
— Di che cosa state parlando?
— Scacchi brechtiani. — Agopian incominciò a mettere via i pezzi. — Sono stati chiamati così in onore del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che sosteneva che il normale gioco degli scacchi fosse noioso. I pezzi dovrebbero cambiare a seconda di dove si trovano sulla scacchiera e del tempo da cui sono lì. È stato un pazzoide di nome Robik a inventare realmente il gioco agli inizi del Ventiduesimo Secolo.
— È un gioco assolutamente irritante — osservò la Ivanova.
— Carlo Marx odiava perdere agli scacchi. La cosa non infastidiva Lenin, almeno secondo Gorki. — Agopian ripiegò la scacchiera, poi la ripiegò una seconda volta. — Lenin era interessato al modo in cui perdeva e questo gli impediva di adirarsi per il fatto di avere perso. Sosteneva che gli scacchi gli insegnavano parecchio sulla strategia e la tattica. Ma dovette rinunciarvi. Interferiva con la sua attività rivoluzionaria.
— Dove sono tutti gli altri? — chiesi.
— Sull’altra barca. Il signor Fang sta preparando la cena. Iguana con peperoni rossi e cipolle verdi. Noi volevamo finire la nostra partita.
— Anche se non so perché — disse la Ivanova. Si alzò e si stiracchiò.
— Pensavi che avresti vinto, compagna, quando il mio commissario ha incominciato a manifestare preoccupanti tendenze revisioniste.
— Commissario? — dissi.
Agopian sorrise. — Robik voleva sbarazzarsi degli elementi feudali nel gioco degli scacchi. Ha trasformati i cavalli in commissari.
— Non dirmi altro.
— Non lo farò. Vieni a cena?
— No.
— C’è della birra nella cambusa e il necessario per fare dei sandwich. — Uscì sul ponte.
La Ivanova lo seguì, indugiando sulla porta. — Hai fatto un ottimo lavoro, Lixia.
Feci il gesto che indicava l’umile accettazione di una lode.
Se ne andò. Presi una birra e la bevvi, poi mi preparai un sandwich. Me lo portai fuori sul ponte insieme a un’altra birra.
Nia e l’oracolo erano ancora lì. — Avete avuto abbastanza da mangiare?
— Io sì — rispose l’oracolo. — Ma Nia sarà affamata quando si sveglierà.
Nia fece il gesto che significava "niente di grave".
Mi sedetti di fronte ai due nativi. — Nia, perché tua figlia era turbata quando le ho chiesto se aveva conosciuto la vecchia Hua?
— Ahi! — esclamò l’oracolo. — Le hai chiesto quello?
— Sì. Che cosa c’è di male in questa domanda?
— Nessuno dà mai a una bambina il nome di una donna ancora viva — mi spiegò Nia. — Se una donna incontra la propria madre di nome, significa che incontra un fantasma.
Dissi: — Uh! — e bevvi ancora un po’ di birra, poi chiesi: — Questo vale anche per gli uomini?
— No — rispose l’oracolo.
Nia aggiunse: — Ai figli maschi vengono dati nomi di uomini che hanno lasciato il villaggio. Di solito il nome di un fratello della madre. A mio figlio è stato messo il nome di mio fratello Anasu. Per quanto ne so, è ancora vivo. — Esitò. — Lo spero. — Guardò l’osso che teneva in mano. Era completamente ripulito. Non rimaneva nemmeno un frammento di carne. — Quando mio figlio lascerà il villaggio, potrà anche incontrare Anasu. Non sarà niente di particolarmente spaventoso.
— A meno che non cerchino di rivendicare lo stesso territorio — disse l’oracolo.
— È assai improbabile. — Nia gettò a terra l’osso, che sbatté sul ponte con un rumore secco. — Mi prenderò una coperta e dormirò lassù. — Indicò la prua dell’imbarcazione.
— Va bene — dissi.
Si alzò rigidamente, come se si fosse affaticata molto con qualche lavoro fisico. Be’, un giorno anch’io avrei scoperto che effetto faceva tornare a casa.
Finii la birra, andai nella cabina e aprii un letto.
— Mi serve una coperta — disse l’oracolo.
Ne presi una per lui. Se la portò fuori. Mi svestii e mi coricai. Restai per un po’ di tempo a pensare alla giornata: le tende e i carri, le persone, in particolare i bambini. Che cosa si doveva provare ad avere una figlia? Allungai la mano verso il pulsante sulla parete sopra di me, lo schiacciai e la luce si spense.
Udii la voce di Derek: — Non sei venuta a riferire ieri sera. Siamo rimasti delusi, Lixia.
Aprii gli occhi. La cabina era piena di persone: Derek, Ago-pian, Tatiana.
— Dovete stare tutti qui dentro? — domandai.
— Disponiamo di spazio limitato al momento — rispose Derek.
Agopian annuì col capo. — Due barche e un pianeta.
— Che cosa è successo al villaggio? — s’informò Tatiana.