In quel momento, e solo per un momento, la compassione per lui aveva quasi sopraffatto il senso di paura che urlava nei corridoi molecolari del suo sistema nervoso. Lui le era parso indeciso e vulnerabile come un bambino, e lei sapeva che questo gli succedeva quando si trovava di fronte a ostacoli imprevisti, e aveva osato sperare che quell’ombra oscura lo lasciasse. Ma, appena spento il televisore, l’aveva trascinata alla porta d’ingresso e gettata sul pianerottolo. La sua faccia era stravolta, inumana.
“Corri, Leila! Per amor di Dio… Per amor di tutti… Corri!”
Guardando la strada immersa nella tranquillità della notte, la fila di cancellate, gli alberi che alla luce dei lampioni sembravano possedere foglie di plastica, Leila cominciò a chiedersi se non fosse meglio andare subito da Henry Nevison. Aveva visto John infilarsi il giubbotto e aveva concluso che stesse per uscire; ma erano possibili deduzioni logiche, nel suo caso? Erano passati già diversi minuti, e a quanto pareva lui era ancora in casa. Strinse le mani sul volante, diede un colpo all’acceleratore; e in quell’istante ci fu un movimento sul lato opposto della via.
John Redpath apparve sotto il lampione e si incamminò verso il centro. Camminava piano, come un vecchio, e teneva il braccio sinistro premuto contro il fianco. Con la destra reggeva un oggetto che lei dovette guardare due volte per riconoscere: il suo televisore portatile. A testa bassa, con le spalle chine, apparentemente ignaro di tutto quello che lo circondava, Redpath scivolò di lampione in lampione. Leila sentì di nuovo la stessa compassione, e fu come un dolore fisico. Lo guardò scomparire lungo il tunnel della prospettiva, poi ripartì e parcheggiò davanti a casa.
Arrivata sul pianerottolo, scoprì che John aveva lasciato la porta aperta e le luci accese. Chiuse a chiave, prese il telefono, formò il numero di Nevison. Le rispose subito, e lei cominciò a parlare; poi si accorse che si trattava solo della segreteria automatica. Lasciò il suo nome, pregò Nevison di richiamarla subito, e rimase lì vicino al telefono per un altro minuto. Stava disperatamente cercando di pensare a qualcuno che potesse aiutarla. Probabilmente a quell’ora Frank Pardey non era in ufficio; e se anche ci fosse stato, come poteva dirgli che John era impazzito, l’aveva sbattuta fuori di casa e le aveva rubato il televisore, però non voleva denunciarlo?
Tesa, nervosa, si tolse la giacca, la ripose sull’attaccapanni; poi, tanto per fare qualcosa, sparecchiò la tavola e lavò i piatti. Quando ebbe finito era in preda a una tristezza profondissima, che permeava ogni suo pensiero e minacciava di travolgerla se solo rifletteva sulla calamità incredibile che aveva colpito Redpath. In due giorni, da quel “flâneur” normalissimo e simpatico che era, con un suo fascino disperato, con l’unico grande difetto di essere terribilmente possessivo, era diventato uno sconosciuto imprevedibile, convinto delle idee più pazzesche su alieni e dischi volanti.
Uno degli aspetti più inquietanti della metamorfosi era quell’aria di convinzione estrema, fanatica, che permeava le sue fantasie. A Pangbourne, Leila conosceva un ragazzo che aveva perso la ragione. A volte si metteva a parlare per ore intere degli emissari del Regno d’Orione che un giorno sarebbero giunti dal cielo a rapirlo, ma nei suoi occhi era sempre dipinto lo stupore. Lo stupore nasceva dal fatto che il ragazzo era ancora, almeno parzialmente, in contatto con la realtà, e lottava per conciliare due visioni del mondo in conflitto fra loro. John, invece, era mortalmente sicuro, era assolutamente convinto. Leila sapeva poco di patologia psicologica, ma aveva il sospetto che un’allucinazione così completa e intensa dovesse avere effetti prolungati. Forse il Composto Centottantatré non era semplicemente una droga psicosomimetica, forse aveva scatenato una follia irreversibile.
L’idea che il vecchio John Redpath fosse scomparso per sempre le fece capire che aveva cominciato, inconsciamente, a considerarlo parte integrante della propria esistenza. Sbalordita di scoprire che quella parte di sé che gli scrittori romantici chiamano cuore, e che lei pensava di avere sotto controllo assoluto, era un organo dotato di volontà propria, capace di creare situazioni impreviste, Leila bevve un po’ di caffè e si ritirò in soggiorno ad aspettare la telefonata di Nevison. A mezzanotte pensò di andare a letto, poi rinunciò: forse Nevison sarebbe corso subito da lei. Si accomodò sul divano, lesse i primi due capitoli di un romanzo senza riuscire a entrare nella storia, e chiuse gli occhi.
Qualche minuto dopo l’una la svegliò il trillo insistente del telefono. Si alzò, gelata, apprensiva, corse nell’atrio, sollevò il ricevitore.
— Grazie, grazie di aver chiamato, Henry — disse. — Stavo aspettando che…
— Chiedo scusa. — A interromperla era stata una voce sconosciuta. — Non è il numero del signor Redpath?