Читаем La velocità del buio полностью

— Siete tutti molto fortunati — inizia. — Nella difficile congiuntura economica in cui ci troviamo, francamente io sono molto sorpreso che questo sia anche lontanamente possibile, ma in effetti… voi avrete la possibilità di provare una terapia d'avanguardia che non vi costerà nemmeno un centesimo. — Le sue labbra abbozzano un largo e falso sorriso e la sua faccia è lucida per lo sforzo a cui si sta sottoponendo.

Deve pensare che noi siamo davvero stupidi. Lancio un'occhiata a Cameron, poi a Dale, a Chuy, gli unici che posso vedere senza voltare la testa. Anche loro mi guardano.

Cameron dice: — Vuole alludere alla terapia sperimentale elaborata a Cambridge e di cui si parlava in "Nature Neuroscience" una settimana fa?

Crenshaw impallidisce e inghiotte. — Come fate a saperlo?

— Era su Internet — spiega Chuy.

— È… è… — Crenshaw s'interrompe e ci guarda accigliato, ma poi contorce la bocca di nuovo in un sorriso. — Comunque, c'è una nuova terapia che voi avete la possibilità di provare senza nessuna spesa.

— Io non la voglio — dice Linda. — Non ho bisogno di una terapia, sto bene come sto. — Mi volto a guardarla.

Crenshaw si fa rosso. — Voi non state bene — replica a voce più alta e più aspra. — Voi non siete normali. Siete autistici, handicappati, siete stati assunti con condizioni speciali…

Segue una pausa.

— Dovete adattarvi — riprende Crenshaw. — Non potete aspettarvi di godere di privilegi speciali per sempre, non quando esiste una terapia che può farvi diventare normali. La palestra, gli uffici individuali, la musica, e quelle decorazioni assurde… potete diventare normali e allora non ci sarà bisogno di quella roba. È antieconomica. È ridicola. — Si gira come per andarsene, poi torna a voltarsi. — Deve finire! — esclama, poi se ne va.

Ci guardiamo in silenzio e solo dopo qualche minuto Chuy dice: — Bene, ci siamo.

— Io non voglio quella terapia — dice Linda. — Non possono impormela per forza.

— Forse sì — osserva Chuy. — Non lo sappiamo con sicurezza.

Nel pomeriggio ognuno di noi riceve una lettera stampata su carta. La lettera dice che a causa della difficile congiuntura economica e della necessità di diversificarsi e rimanere competitivo, ogni reparto deve ridurre il personale. Gli impiegati che prendono parte attiva in protocolli di ricerca sono esenti da possibile licenziamento. Agli altri saranno offerte ottime buonuscite se si dimetteranno spontaneamente. La lettera non dice chiaro e tondo che dobbiamo accettare il trattamento o perdere il lavoro, ma io penso che il suo significato sia quello.

Il signor Aldrin viene nella nostra sede nel tardo pomeriggio e ci convoca nell'atrio.

— Non sono riuscito a fermarli — dice. — Ci ho provato. — Io ricordo di nuovo il commento di mia madre: "Provare non è fare". Il signor Aldrin sembra depresso. — Mi dispiace davvero — ripete, e se ne va.

— Dovremmo parlarne — dice Cameron. — Qualunque cosa vogliamo, dovremmo parlarne. E parlare anche con qualcun altro: un avvocato, per esempio.

— La lettera dice che non dobbiamo discuterne fuori dell'ufficio — obietta Bailey.

— La lettera è concepita per farci paura — ribatto io.

— Dobbiamo parlarne — ripete Cameron. — Stasera dopo il lavoro.

— Io faccio il bucato il venerdì sera — dico.

— Domani al Centro…

— Dovrò andare fuori, domani — dico. Tutti mi guardano e io distolgo gli occhi. — C'è un torneo di scherma — aggiungo. Resto un po' sorpreso che nessuno mi domandi chiarimenti.

— Ne parleremo noi e domanderemo al Centro — decide Cameron. — Poi ti riferiremo.

— Io non voglio parlare — dice Linda. — Voglio essere lasciata in pace. — Se ne va. È turbata. Siamo tutti turbati.

Entro nel mio ufficio e guardo lo schermo del computer. È lì che sono racchiusi gli schemi che io devo analizzare o creare, ma oggi l'unico schema che vedo mi si sta chiudendo intorno come una trappola, è un mare di tenebra che si raduna da ogni parte più in fretta di quanto io possa analizzare.

Mi concentro su quanto devo fare oggi e domani. Tom mi ha detto come prepararmi e lo farò.


Tom fermò la macchina nel parcheggio della casa dove abitava Lou. Come aveva previsto, Lou era pronto e lo aspettava fuori, con tutto il suo equipaggiamento, tranne le spade, ordinatamente riposto in uno zaino. Appariva teso, ma riposato: evidentemente aveva seguito i suoi consigli, aveva mangiato e dormito normalmente. Portava il costume che Lucia aveva scelto per lui, e non sembrava trovarcisi molto a suo agio.

— Pronto? — disse Tom.

Lou si guardò intorno e rispose: — Sì, Buongiorno, Tom. Buongiorno, Lucia.

— Buongiorno a te — disse Lucia, e Tom le lanciò una rapida occhiata. Avevano già bisticciato a proposito di Lou: Lucia era pronta a fare a pezzi chiunque gli desse il minimo fastidio, mentre Tom pensava che Lou fosse capace di risolvere i piccoli problemi da solo.

Lou prese posto nel sedile posteriore e durante la strada non disse nulla. Un bel contrasto con i chiacchieroni ai quali lui era abituato, pensò Tom. A un tratto però Lou gli chiese: — Ti sei mai domandato quale sia la velocità del buio?

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