Читаем Operazione Domani полностью

Io sono immune al cancro e a molte altre malattie. Ma non porto un cartello che lo annuncia al pubblico. Ho riflessi insoliti. Ma non ne do spettacolo afferrando al volo una mosca fra pollice e indice. Non gareggio mai con altra gente in prove di destrezza.

Ho una memoria insolita, una facilità innata e insolita nel comprendere numeri e rapporti spaziali, una propensione insolita per le lingue. Ma se voi pensate che questo significhi un quoziente intellettivo da genio, permettetemi di aggiungere che, nelle scuole che mi hanno educata, l’obiettivo di un test di Qi consiste nell’ottenere esattamente il punteggio prefissato, non nel fare sfoggio di intelligenza. In pubblico, nessuno mi scoprirà mai più intelligente di chi mi sta attorno, a meno che non si tratti di un’emergenza e non ci siano di mezzo la mia missione o il mio collo, o tutte e due le cose.

L’insieme di queste e altre migliorie serve, stando a fonti attendibili, a migliorare le prestazioni sessuali; ma, fortunatamente, molti maschi sono inclini a considerare i miglioramenti in quest’area come semplici riflessi della loro eccellenza. (Considerata nell’ottica giusta, la vanità maschile è una virtù, non un vizio. Trattata nel modo giusto, rende il maschio molto più gradevole. L’aspetto di Boss che mi fa più infuriare è la sua totale mancanza di vanità. Quell’uomo non offre nessun appiglio!)

Non avevo paura che mi scoprissero. Rimossi dal mio corpo tutti i codici di identificazione del laboratorio, anche il tatuaggio che avevo sul palato, nessuno poteva dire che io ero stata progettata a tavolino, che non ero nata dalla roulette biologica di un miliardo di spermatozoi in gara per un solo ovulo.

Però si presumeva che una moglie appartenente a un gruppo-S desse il suo contributo allo sciame di marmocchi sul pavimento.

Be’, perché no?

Per diversi motivi.

Io ero il corriere di un’organizzazione paramilitare. Immaginatemi un po’ mentre cerco di sistemare un assalitore con un pancione di otto mesi.

Noi femmine Pa veniamo consegnate o messe in vendita in una condizione di sterilità reversibile. Per una persona artificiale, il desiderio di avere figli, di farli crescere nel proprio corpo, non è «naturale»; è ridicolo. La soluzione in vitro ci appare molto più ragionevole, e comoda e pulita, di quella in vivo. La prima volta che ho visto una donna incinta alle soglie del parto, ero alta quasi quanto lo sono oggi; e ho pensato che avesse una malattia mortale. Quando ho scoperto che cosa le succedeva, mi si è quasi rovesciato lo stomaco. Parecchio tempo dopo, ripensandoci a Christchurch, mi venivano ancora i brividi. Cristo santo, farlo come una gatta, con sangue e dolore? Perché? E poi, perché farlo? Anche se stiamo riempiendo il cielo, questo mondo scervellato è già troppo carico di persone; perché peggiorare le cose?

Decisi, col massimo rimpianto, che avrei dovuto schivare lo scoglio del matrimonio raccontando che ero sterile: niente bambini. Abbastanza vero, anche se non del tutto.

Non mi chiesero nulla.

Almeno in fatto di figli. Nei giorni successivi, a piene mani, continuai a godermi al massimo la vita in famiglia, finché ne avevo una: il caldo piacere della chiacchierata fra donne, mentre lavavamo le tazze dopo il tè; il divertimento folle con bambini e cuccioli; il piacere calmo di parlare mentre ci occupavamo del giardino. Ogni minuto dei miei giorni, queste cose mi davano la sensazione di appartenere a qualcuno.

Un mattino, Anita mi invitò in giardino. La ringraziai e le feci notare che dovevo dare una mano a Vickie. Dopo di che qualcuno prese il mio posto con Vickie, e io mi ritrovai seduta in fondo al giardino con Anita. I bambini erano stati scacciati in modo deciso.

Anita disse: — Marjorie, tesoro… — A Christchurch sono Marjorie Baldwin, perché era quello il mio nome ufficiale quando conobbi Douglas a Quito. — Sappiamo tutte e due che è stato Douglas a invitarti qui. Sei felice con noi?

— Terribilmente felice!

— Abbastanza felice, secondo te, da voler rendere definitiva la cosa?

— Sì, però… — Non ebbi mai la possibilità di dire sì-però-sono sterile. Anita mi interruppe decisa.

— Forse è meglio che ti dica prima alcune cose, tesoro. Dobbiamo discutere della tua dote. Se lasciassi fare agli uomini, non si parlerebbe mai di soldi. Albert e Brian sono pazzi di te quanto Douglas, e io capisco benissimo. Però questo gruppo, oltre a essere una comunità matrimoniale, è anche un’azienda di famiglia, e qualcuno deve tenere d’occhio la contabilità… Ed è per questo che io sono presidente del consiglio di amministrazione e primo dirigente. Non mi lascio mai travolgere dai sentimenti al punto di trascurare gli affari. — Sorrise, e i suoi aghi per la maglia tintinnarono. — Chiedilo a Brian. Lui mi chiama Ebenezer l’Ebrea, però non si è mai offerto di assumersi queste rogne.

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