Neanche sull’identità delle persone del nostro gruppo che conoscevano la posizione del quartier generale. Era un’informazione impartita «solo in caso di necessità», e cercare di indovinare in che modo Boss decidesse queste cose era uno spreco di tempo.
A Saint Louis Est comperai un mantello col cappuccio, poi una maschera in lattice in un negozio di giochi e scherzi, scegliendone una non grottesca. Poi feci dolorosi sforzi per scegliere assolutamente a caso il terminale. Nutrivo il forte sospetto, ma non la certezza, che Boss avesse subito un altro attacco, questa volta fatale, e l’unico motivo per cui non mi ero ancora lasciata prendere dal panico era che sono addestrata ad arrendermi al panico solo al termine dell’emergenza.
Mascherata e incappucciata, composi l’ultimo codice di cui disponevo. Stesso risultato, e di nuovo era impossibile spegnere il terminale. Girai la schiena all’apparecchio, mi tolsi la maschera e la lasciai cadere a terra, uscii dalla cabina al rallentatore, girai l’angolo, mi levai il mantello mentre camminavo, lo ripiegai, lo infilai in un cestino per i rifiuti, tornai a Saint Louis dove, con perfetta faccia di bronzo, usai la carta di credito della Banca Imperiale di Saint Louis per pagare la sotterranea per Kansas City. Un’ora prima, a Little Rock, me n’ero servita senza esitazioni, ma allora non sospettavo che a Boss fosse successo qualcosa; in effetti, cullavo la convinzione «religiosa» che
Adesso invece ero costretta ad agire partendo dal presupposto che a Boss fosse accaduto qualcosa, il che comprendeva l’ipotesi che la mia MasterCard di Saint Louis (basata sui soldi di Boss, non sui miei) potesse andare a farsi friggere da un momento all’altro. Potevo infilarla in una fessura e vederla bruciare dal meccanismo di distruzione, non appena la macchina avesse riconosciuto il numero.
Quattrocento chilometri e quindici minuti dopo ero a Kansas City. Non lasciai mai la stazione. Telefonai dal banco delle informazioni per chiedere notizie sulla linea KC-Omaha-Sioux Falls-Fargo-Winnipeg e mi risposero che la linea funzionava fino alla località di confine di Pembina, non oltre.
Cinquantasei minuti più tardi ero al confine col Canada Britannico, direttamente a sud di Winnipeg. Era ancora il primo pomeriggio. Dieci ore prima arrancavo sulla riva fangosa del Mississippi e mi chiedevo, stordita, se fossi nell’Impero o se invece non fossi già tornata in Texas.
Adesso ero orribilmente ansiosa di uscire dall’Impero, più di quanto lo fossi stata di entrarci.
Per il momento ero riuscita a distanziare di un balzo di pulce la Polizia Imperiale, ma ormai ero del tutto certa che volessero parlare con me. E io non volevo parlare con loro perché avevo sentito certi racconti sul loro modo di condurre le indagini. I ragazzi che mi avevano interrogata tempo addietro erano stati moderatamente duri… ma la Polizia Imperiale aveva la reputazione di bruciare il cervello alle sue vittime.
19
Quattordici ore più tardi mi ero spostata solo di venticinque chilometri a est del punto in cui avevo dovuto lasciare la sotterranea. Avevo trascorso un’ora in compere, quasi un’ora a mangiare, più di due ore per un serrato consulto con uno specialista, sei ore celestiali a dormire, e quasi quattro a trasferirmi con somma cautela a est, tenendomi parallela alla barriera di confine senza avvicinarmi troppo; e adesso era l’alba e io raggiungevo la barriera, la toccavo, e prendevo a seguirla, sotto le spoglie di un’annoiata addetta alle riparazioni.
Pembina è solo un villaggio. Avevo dovuto tornare a Fargo per trovare uno specialista; un viaggetto veloce, con la capsula. Lo specialista che cercavo lavorava nello stesso ramo della «Artisti Ltd.» di Vicksburg, solo che la sua ditta non faceva pubblicità nell’Impero; occorsero tempo e caute bustarelle per trovarlo. Aveva l’ufficio in centro, dalle parti di Main Avenue e University Drive, però si nascondeva dietro la facciata di un’attività più convenzionale; non era facile scovarlo.
Indossavo ancora la tuta in neocotone blu stinto che avevo addosso quando mi ero buttata dalla