Fin dall’età classica i filosofi avevano seguito due diverse scuole di pensiero: da una parte chi riteneva che i fenomeni naturali dovessero avvenire senza sbalzi, e dall’altra chi sosteneva che questa altro non era che un’illusione; tutto accade secondo salti o balzi ben definiti, troppo piccoli perché li si possa percepire normalmente. La teoria dell’atomo rappresentò un trionfo per questa seconda scuola di pensiero; e quando la teoria dei quanti di Planck dimostrò che anche la luce e l’energia hanno una natura corpuscolare e non continua, il secolare dibattito finalmente ebbe fine.
In ultima analisi, il mondo della Natura appariva corpuscolare e discontinuo. Anche se all’occhio dell’uomo una cascata è cosa ben diversa da un carico di mattoni scaricato da un camion, in realtà le due cose erano molto simili. I minuscoli «mattoni» di H2O erano troppo piccoli perché fossero visibili a occhio nudo, ma erano chiaramente discernibili con il sussidio degli strumenti dello scienziato.
Dopo di che, l’analisi venne condotta ancora più in là. Ciò che rendeva così difficilmente accettabile l’idea che anche lo spazio avesse una natura corpuscolare non era tanto il fattore dimensioni — una scala, cioè, subsubmicroscopica — quanto la
Nessuno era in grado di immaginarsi davvero un
Ma un milionesimo
Eppure gli eventi che riguardavano la struttura stessa dello spazio avvenivano a una scala ancora incredibilmente inferiore a tal punto che, in confronto, una formica e un elefante avevano, in pratica, le stesse dimensioni. Se ci si immaginava la struttura dello spazio come una massa schiumosa, formata da tante bollicine (un modello questo fuorviante in modo quasi irrimediabile, ma pur sempre una prima approssimazione alla verità) allora queste bollicine avevano un diametro di…
… un millesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo…
… di centimetro.
E ora ci si immagini che queste bolle esplodano liberando energie paragonabili a una bomba atomica, e che poi riassorbano queste energie e di nuovo le liberino, e così via per sempre.
Questo era il modello, qui esposto in modo rozzamente semplificato, che secondo alcuni fisici della seconda metà del secolo ventesimo meglio descriveva la struttura fondamentale dello spazio. Che si potessero mai sfruttare queste energie dev’essere apparsa, a quei tempi, una congettura ridicola.
Così appariva, alla generazione precedente, l’idea di sfruttare le forze contenute nel nucleo dell’atomo; ciò che invece era diventato realtà nel giro di trenta o quarant’anni. Imbrigliare le «fluttuazioni quantiche» legate alle energie dello spazio stesso era un compito infinitamente più difficile — ma che avrebbe procurato vantaggi incommensurabilmente più grandi.
Ciò avrebbe dato all’umanità, tra le altre cose, il dominio dell’universo.
Un’astronave sarebbe stata in grado di accelerare praticamente per sempre, giacché non avrebbe avuto bisogno di carburante di alcun genere. L’unico ostacolo che in pratica avrebbe limitato la velocità sarebbe stato lo stesso contro il quale dovevano lottare i primi aeromobili, e cioè l’attrito col mezzo circostante. Nello spazio interstellare sono presenti quantità misurabili di idrogeno nonché di altri atomi, cosa che avrebbe potuto dare noie molto prima di raggiungere la velocità massima possibile nell’universo, e cioè la velocità della luce.
Il motore quantico si sarebbe potuto costruire in ogni momento a partire dal 2500, e la storia delle specie — come era accaduto molte altre volte nel tortuoso processo del progresso scientifico — osservazioni sbagliate e teorie erronee avevano ritardato l’esito finale di almeno mille anni.
I secoli febbrili degli Ultimi Giorni videro arte grandissima — per quanto spesso decadente — ma scarsi progressi nelle scienze. Inoltre, i molti insuccessi avevano convinto quasi tutti che sfruttare le energie dello spazio era, come il concetto di moto perpetuo, un’idea impossibile anche in teoria, figuriamoci nella pratica. A differenza del moto perpetuo, però, questa impossibilità non era ancora stata dimostrata scientificamente, e fino a quando non si fosse avuta questa dimostrazione rimaneva una speranza.
Solo centocinquant’anni prima della fine, un gruppo di studio del satellite di ricerca a gravità zero Lagrange Uno annunciò di poter dimostrare l’impossibilità di sfruttare le immense energie del superspazio.