L’apparecchiatura pronta sul ponte di poppa sarebbe stata familiare a ogni oceanografo degli ultimi duemila anni. Era costituita da un telaio di metallo sul quale erano assicurate tre telecamere, un cestello di filo metallico in cui mettere i campioni raccolti dal braccio meccanico a controllo telecomandato e alcuni idrogetti che permettevano di spostarsi in ogni direzione. Una volta calata in acqua, l’apparecchiatura inviava immagini e dati alla nave attraverso fibre ottiche il cui spessore complessivo non superava quello di una mina da matita. La tecnologia era vecchia di secoli, ma ancora perfettamente all’altezza.
Ora la terra era fuori vista, e per la prima volta Loren si trovò completamente circondato dall’acqua. Ripensò a quanto l’aveva preoccupato la gita con Brant e Kumar, quando si erano allontanati sì e no un chilometro dalla spiaggia. Ma questa volta, notò con soddisfazione, si sentiva molto più a suo agio malgrado la presenza del rivale. Forse anche perché l’imbarcazione era parecchio più grande…
«Strano» disse Brant. «Non avevo mai trovato i sargassi così a ovest.»
In un primo momento Loren non vide nulla; poi si accorse che, a prua, sull’acqua c’era qualcosa di scuro. Qualche minuto dopo l’imbarcazione si trovò circondata dalla vegetazione galleggiante, e il capitano dovette ridurre la velocità al minimo.
«Comunque siamo quasi arrivati» disse. «Inutile intasare le prese d’acqua con quella roba. D’accordo, Brant?»
Brant regolò un cursore sullo schermo e fece qualche calcolo.
«Sì… siamo a cinquanta metri soltanto dal punto in cui emittente ha cessato di trasmettere. Profondità duecentodieci. Caliamo il pesce in mare?»
«Un momento» fece uno scienziato dell’Isola Settentrionale. «Abbiamo investito un mucchio di tempo e di soldi in quella macchina, che è unica al mondo. E se finisse per impigliarsi nei sargassi?»
Vi fu una pausa di pensieroso silenzio; quindi Kumar, che era stato insolitamente zitto forse perché messo in soggezione da quelli dell’Isola Settentrionale, prese la parola con una certa diffidenza.
«Visti da qui sembrano peggio di quello che sono in realtà. A dieci metri di profondità già non ci sono più foglie, solo steli grossi e radi. Tra uno stelo e l’altro c’è parecchio spazio, come in una foresta.»
Sì, pensò Loren, una foresta sottomarina con i pesci che nuotano tra i tronchi sottili e sinuosi. Mentre gli scienziati osservavano lo schermo principale e i diversi quadri strumenti, Loren si era messo un paio di occhiali a visione totale che escludevano ogni cosa dal campo visivo tranne la scena trasmessa dal robot che continuava a scendere con lentezza. Psicologicamente non si trovava più sul ponte della
Era diventato un esploratore che si addentrava in un universo alieno in cui non sapeva cosa avrebbe potuto incontrare. Era un universo quasi monocromatico; gli unici colori erano il blu e il verde, e la visibilità non si estendeva oltre i trenta metri. Tutto intorno vedeva dei tronchi sottili sostenuti da vesciche piene di gas che, disposte lungo di essi a intervalli regolari, davano loro la spinta ascensionale necessaria. I tronchi sprofondavano nell’oscurità e salivano verso il «cielo» luminoso formato dalla superficie del mare. Certe volte aveva l’impressione di stare attraversando un folto d’alberi durante una giornata grigia e nebbiosa; ma subito passava, sfrecciando, un banco di pesci che distruggeva l’illusione.
«Duecentocinquanta metri» disse qualcuno. «Tra poco si vedrà il fondo.
Accendiamo i fari? La qualità dell’immagine sta peggiorando rapidamente.»
Loren non se n’era accorto, perché i controlli automatici avevano mantenuto costante la luminosità. Però si rese conto che a quella profondità l’oscurità doveva essere praticamente completa, se non altro per l’occhio umano.
«No. Non vogliamo interferire se non quando sarà proprio necessario.
Fin quando la telecamera funziona, accontentiamoci della luce che c’è.»
«Ecco il fondo! È per lo più roccioso… c’è poca sabbia.»
«Naturalmente. Il
Loren capì meglio ciò che intendeva lo scienziato quando vide che i tronchi sottili terminavano con una rete di radici aggrappate alle sporgenze rocciose così saldamente che né le tempeste né le correnti marine potevano strappar via le piante. L’analogia con una foresta terrestre era più stretta di quanto avesse creduto.
L’apparato robot si addentrava nella foresta sottomarina con grande cautela tirandosi dietro il cavo che lo collegava alla nave. I tronchi erano molto distanziati, e non c’era pericolo che il cavo s’impigliasse. Anzi, erano così ben distanziati che parevano deliberatamente…
Gli scienziati che osservavano lo schermo compresero l’incredibile verità solo qualche secondo più tardi di Loren.