Stephenie Meyer
Breaking Dawn
LIBRO PRIMO
Bella
Prefazione
Già troppe volte avevo sfiorato la morte, ma non poteva diventare un’abitudine.
Eppure, affrontarla di nuovo sembrava stranamente inevitabile. Come fossi davvero destinata alla catastrofe. Le sfuggivo ogni volta, ma tornava sempre a cercarmi.
Questa, però, era una circostanza molto diversa dalle altre.
È facile scappare da qualcuno di cui hai paura, o tentare di combattere qualcuno che odi. Sapevo reagire nel modo giusto a un genere preciso di assassini: i mostri, i nemici.
Ma se ami chi ti sta uccidendo, non hai alternative. Come puoi scappare, come puoi combattere se così feriresti il tuo adorato? Se la vita è tutto ciò che hai da offrirgli, come fai a negargliela?
Se è qualcuno che ami davvero...
1
Fidanzata
Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare.
Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione?
Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto.
La mia auto. Uffa.
Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Marshall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. Almeno non schiacciava il naso contro il vetro. Non ancora.
Scattò il verde e nella fretta di fuggire affondai il piede sull’acceleratore senza pensarci, come avrei fatto al volante del mio decrepito Chevy.
Mentre il motore ringhiava come una pantera a caccia, l’auto schizzò in avanti così veloce che mi ritrovai incollata al sedile di pelle nera, con lo stomaco schiacciato sulla spina dorsale.
«Accidenti», ansimai mentre annaspavo alla ricerca del freno. Recuperata la calma, mi limitai a sfiorare il pedale. Uno scossone e l’auto tornò perfettamente immobile.
Non osai controllare le reazioni intorno a me. A quel punto non c’erano più dubbi su chi fosse al volante. Con la punta della scarpa abbassai il pedale dell’acceleratore di mezzo millimetro e di nuovo la macchina scattò in avanti.
Riuscii a raggiungere il traguardo: la stazione di servizio. Se non fossi stata in riserva non mi sarei nemmeno azzardata a tornare in città. Ormai pur di non apparire in pubblico facevo a meno di parecchie cose, compresi biscotti e stringhe delle scarpe.
Come fossi al gran premio, in pochi secondi aprii lo sportello, svitai il tappo, strisciai la carta di credito e infilai la pompa nel serbatoio. Ovviamente non potevo far nulla perché i numeri sul display accelerassero il passo. Ticchettavano pigri, quasi lo facessero apposta per infastidirmi.
Fuori non c’era un raggio di sole, il solito giorno piovigginoso di Forks, ma continuavo ad avere la sensazione di portarmi dietro un riflettore puntato sul delicato anello che brillava sulla mia mano sinistra. In momenti come quello, quando percepivo degli sguardi alle mie spalle, sentivo l’anello lampeggiare a mo’ d’insegna: «Guardatemi, guardatemi».
Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore?
«Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce.
«Ehm, signorina?», disse una voce maschile.
Mi voltai e me ne pentii all’istante.