Читаем Morire dentro полностью

Arrivò poi il mio turno. Il mio avversario era un ragazzo di nome Jimmy, di qualche mese più giovane di me però più alto e più pesante e molto più atletico. Penso che gli arbitri ci avessero fatto scontrare apposta, nella speranza che Jimmy mi accoppasse: non ero il loro beniamino. Cominciai a menar colpi anche prima che loro mi mettessero su i guantoni. — Primo round! — urlò l’arbitro, e noi ci accostammo l’uno all’altro. Sentii distintamente Jimmy che pensava di colpirmi al mento, e nel preciso istante in cui il suo guantone arrivava verso la mia faccia mi piegai velocemente e lo colpii alla pancia. Questo lo rese furioso. Ora aveva deciso di pestarmi sodo sulla nuca, però io lo vidi arrivare, balzai indietro e lo colpii sul collo proprio vicino al pomo d’adamo. Lui boccheggiò e si ritirò indietro, quasi piangendo. Dopo un attimo ritornò all’attacco, però io continuai ad anticipare le sue mosse e lui non riuscì mai a toccarmi. Per la prima volta nella mia vita mi sentii forte, aggressivo. Mentre lo suonavo per bene, l’occhio mi corse oltre il ring d’improvviso e scorsi mio padre tutto su di giri per l’orgoglio, e il padre di Jimmy, accanto a lui, che appariva arrabbiato e perplesso. Fine del primo round. Ero tutto sudato, esuberante, aggressivo.

Secondo round: Jimmy venne avanti deciso a ridurmi a pezzettini. Oscillando selvaggiamente, freneticamente, mirando ancora alla mia testa. Io tenni la testa dove lui non poteva arrivare e gli piroettai di fianco e lo colpii di nuovo nella pancia, molto duro, e quando si piegò in due lo colpii al naso e lui piombò giù, urlando. L’arbitro che dirigeva il match contò velocissimo fino a dieci e alzò in alto il mio braccio. — Ehi, Joe Louis! — strillava mio padre. — Ehi, Willie Pep! — L’arbitro suggerì di andare da Jimmy per aiutarlo a stringergli la mano. Appena lui fu in piedi colsi con assoluta nitidezza la sua decisione di piantarmi una testata sui denti, e io finsi di non farci caso, fino a quando lui caricò; allora freddamente mi spostai di fianco e gli picchiai violentemente i pugni sulla schiena piegata. Questo lo fece imbestialire. — David imbroglia! — gemette. — David imbroglia!

Tutti loro! Quanto mi odiavano per la mia acutezza, o almeno per ciò che interpretavano come acutezza! La mia sleale abilità di intuire sempre quello che stava per succedere. Bene, adesso non ci saranno più problemi. Dovrebbero amarmi, tutti. Per amarmi, mi hanno ridotto a un mollusco.


È Judith che apre la porta. Indossa un vecchio maglione grigio e calzoni sportivi azzurri con un buco su un ginocchio. Lei mi tende le braccia e io la abbraccio calorosamente, stretta stretta contro il mio corpo, forse per mezzo minuto. Sento della musica che proviene dall’interno: l’Idillio di Sigfrido, penso. Dolce, amorosa, gradevole musica.

— Sta già nevicando? — chiede.

— Non ancora. Grigiore e gelo, tutto qui.

— Ti preparo un drink. Vai nel soggiorno.

Resto in piedi di fronte alla finestra. Volteggiano pochi fiocchi di neve. Mio nipote arriva e mi studia a distanza, un dieci metri. Con mia sorpresa sorride. Dice con calore: — Ciao, zio David!

Deve averlo indottrinato Judith. Sii gentile con zio David, deve avergli raccomandato. Lui non si sente bene, ultimamente gli sono capitati un mucchio di guai. Così il ragazzo se ne sta lì, tutto gentile con zio David. Non credo che mi abbia mai sorriso prima d’ora. Fuori dalla culla, per me non ha mai avuto né bisbigli né guaiti. Ciao, zio David! Che bello, piccolino.

— Salve, Pauly. Come ti va?

— Molto bene — dice lui. Con questo le sue buone maniere sono esaurite; non sta a far domande sullo stato della mia salute, ma tira fuori uno dei suoi giocattoli e si immerge nei suoi meandri. Eppure i suoi occhi larghi, oscuri, brillanti, continuano a esaminarmi ogni pochi minuti, e non sembra che ci sia nessuna ostilità nel suo sguardo.

Wagner è finito. Rovisto in mezzo alla raccolta di dischi, ne scelgo uno, e lo metto sul piatto. Schönberg, Verklärte Nacht. Musica di un’angoscia tempestosa seguita dalla calma e dalla rassegnazione. Di nuovo il tema dell’accettazione. Bellissimo. Bellissimo. Le note echeggianti mi avvolgono. Pastose, lussuraggianti. Appare Judith; mi offre un bicchiere di rum. Ha qualcosa di dolce per sé, sherry o vermouth. Sembra un po’ giù, però molto cordiale, molto aperta.

— Alla salute — dice.

— Alla salute.

— Hai messo una bella musica. Un mucchio di gente non ci crederebbe che Schönberg può essere sensuale e tenero. Naturalmente, è lo Schönberg dei primi tempi.

— Sì — dico io. — I succhi romantici tendono a inaridire via via che invecchi, eh? Che cosa hai fatto in questi ultimi tempi, Jude?

— Non molto. Un mucchio delle solite vecchie cose.

— Come sta Karl?

— Non lo vedo più.

— Ah.

— Non te l’avevo detto?

— No — dico. — È la prima volta che lo sento.

— Non sono abituata a pensare che è necessario dirti le cose, Duv.

— Sarebbe meglio che ti ci abituassi. Tu e Karl…

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