— Stava diventando troppo insistente riguardo al matrimonio. Gli ho detto che era troppo presto, che non lo conoscevo abbastanza, che avevo paura di ingabbiare di nuovo la mia vita in una struttura che forse è sbagliata per me. Lui è restato offeso. Ha cominciato a farmi la predica su questo ritirarsi per complicare e rinviare le cose, sulla mania auto-distruttiva, un mucchio di sciocchezze del genere. L’ho guardato dritto negli occhi nel bel mezzo del suo sermone e l’ho visto come una specie di figura paterna; lo sai: grosso, pomposo, rigido, non un amante ma un mentore, un professore; non ne ho proprio bisogno per niente. Allora ho cominciato a pensare a quello che sarebbe stato tra dieci o dodici anni. Lui sui sessanta, e io ancora giovane. E mi sono resa conto che per noi non c’era futuro insieme. Gliel’ho detto il più gentilmente possibile. Non ha telefonato per dieci giorni o giù di lì. Penso che non telefonerà più.
— Mi spiace.
— Non è il caso, Duv. Ho fatto la cosa più intelligente. Ne sono sicura. Karl andava benissimo per me, però non avrebbe potuto essere per sempre. Il mio periodo-Karl. Un periodo sano. L’essenziale è non permettere che un periodo continui dopo che tu hai capito che è finito.
— Sì — dico io. — Certamente.
— Vuoi ancora un po’ di rum?
— Fra un po’.
— Che cosa mi dici di te? — chiede lei. — Parlami di te. Come te la cavi, adesso che… adesso che…
— Adesso che è finito il mio periodo di superuomo?
— Sì — dice lei. — È proprio finito, eh?
— Proprio. Tutto finito. Non c’è dubbio.
— E allora, Duv? Come ti senti da quando è successo?