Читаем Morire dentro полностью

Il piccolino mi fissa senza fiducia. È seduto a sei metri da me, accanto alla finestra; sta baloccandosi con un intricato giocattolo di plastica, però tiene gli occhi incollati su di me. Un bambino difficile da capire, esile e teso come sua madre, che si tiene alla larga, freddo. Non c’è mai stata una gran simpatia reciproca tra noi: io sono stato nella sua mente e so che cosa pensa di me. Per lui sono uno dei tanti uomini che ci sono nella vita di sua madre, non sono un vero zio, non sono diverso dagli innumerevoli zii-presi-a-nolo sempre prima di andare a letto; ritengo che lui pensi proprio che io sia uno dei suoi amanti che si fa vivo più spesso degli altri. Un errore comprensibile. Però mentre lui è risentito con gli altri semplicemente perché sono suoi concorrenti nell’affetto di lei, considera me con freddezza perché è convinto che io abbia causato dei dispiaceri a sua madre: è per amore di lei che non gli vado a genio. Con quanta acutezza ha individuato quell’intrecciarsi di ostilità, vecchio di decenni, e di tensioni che configura e definisce la mia relazione con Judith! Dunque sono un nemico. Se potesse mi farebbe la pelle.

Centellino il mio bicchierino, ascolto Bach, sorrido senza sincerità al piccolino, e aspiro l’aroma della salsa per gli spaghetti. Il mio potere praticamente è in riposo; qui non tento granché di servirmene, e comunque oggi la sua incisività è fiacca. Dopo un po’ Judith emerge dalla cucina e, attraversando sparata il soggiorno, dice: — Vieni a parlare con me mentre mi cambio, Duv. — La seguo nella camera da letto; lei riprende gli abiti nel bagno lì vicino, lasciando la porta aperta soltanto qualche centimetro. L’ultima volta che l’ho vista nuda aveva sette anni. Dice: — Sono contenta che tu abbia deciso di venire.

— Anch’io.

— Però sembri molto giù.

— È soltanto fame, Judith.

— Saremo a tavola tra cinque minuti. — Rumore di acqua che scorre. Lei dice qualcos’altro, ma lo scolo del lavandino lo soffoca. Mi guardo pigramente intorno nella camera da letto. Una camicia bianca da uomo, troppo grande per Judith, è appesa alla maniglia dell’armadio a muro. Sul comodino ci sono due libri, due grossi manuali, o così sembra: Neuroendocrinologia analitica e Studi sulla fisiologia della termoregolazione. Letture improbabili per un tipo come Judith. Forse è stata incaricata di tradurli in francese. Osservo che sono copie nuove, sebbene un libro sia stato pubblicato nel 1964 e l’altro nel 1969. Sono ambedue dello stesso autore: K.F. Silvestri, dottore in medicina e in filosofia.

— Ti sei iscritta a una scuola di medicina? — chiedo.

— Parli dei libri? Sono di Karl.

Karl? un nome nuovo. Dottor Karl F. Silvestri. Mi attacco leggermente alla sua mente e ne estraggo l’immagine di lui: un uomo alto vigoroso dalla faccia grave, spalle larghe, un mento forte con la fossetta, una zazzera fluente di capelli grigi. Sulla cinquantina, da quel che posso giudicare. Judith va sempre a scovare uomini piuttosto vecchi. Mentre le leggo nel pensiero lei mi parla di lui. Il suo "amico" del momento, l’ultimissimo "zio" del piccolino.

È un importante pezzo grosso al Centro Medico della Columbia, una vera autorità in fatto di corpo umano, il corpo di Judith compreso, presumo. Divorziato da poco, dopo 25 anni di matrimonio. Ah! A lei piace prenderli al volo al momento del rimbalzo. Lo ha incontrato tre settimane fa attraverso un amico comune, uno psicanalista. Si sono visti soltanto quattro o cinque volte; lui è sempre occupatissimo: riunioni di comitato in questo o in quell’ospedale, seminari, consulti. Non è passato molto tempo da quando Judith mi diceva che era a corto di uomini, forse senza uomini completamente. Evidentemente no. Deve essere un fatto serio se lei sta provando a leggere i suoi libri. A me paiono assolutamente tabù, tutti schemi e tavole statistiche e una pesante terminologia latinizzata.

Lei esce dal bagno indossando un lucido completo color porpora, e gli orecchini di cristallo che le ho regalato per il suo ventinovesimo compleanno. Quando le faccio visita tenta sempre di ricorrere a qualche piccolo tocco sentimentale per tenerci uniti; questa sera è la volta degli orecchini. La nostra amicizia, di questi tempi, è di qualità piuttosto fragile, mentre attraversiamo in punta di piedi, senza far rumore, il giardino dove giace sepolto il nostro antico odio. Ci abbracciamo, una stretta da fratello e sorella. Un profumo piacevole. — Salve — dice lei. — Mi spiace di essermi fatta trovare in disordine quando sei arrivato.

— È colpa mia. Era troppo presto. Ad ogni modo, non eri affatto in disordine.

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