Per Shadrach è troppo: i bambini inselvatichiti, gli sventurati che barcollano, lo sporco, la densità inconsueta della popolazione che si affolla tra le mura di questa piccola città. Non c’è modo di sfuggire alla tristezza penetrante di questo posto. Non avrebbe mai dovuto entrarci; sarebbe stato molto meglio guardare dal balcone del suo hotel, e perdersi in pensieri romantici su Salomone e il Saladino. Si sente spingere, urtare, tirare, toccare; gli dicono cose dal tono aspro in lingue che non capisce; lo sorprendono con proposte di comprargli i vestiti, di vendergli gioielli, di guidarlo in visite dei più importanti luoghi religiosi. Senza l’aiuto di guide, Shadrach si fa strada fino alla Chiesa del Santo Sepolcro, un edificio sudicio e sgraziato, ma non entra: a quanto pare, all’ingresso principale è in corso una sorta di battaglia furiosa tra preti di sette diverse, che gridano e agitano i pugni e si tirano le barbe e si strappano le tuniche l’un l’altro. Girando attorno alla chiesa, sul retro Shadrach trova un affollato bazar, o più precisamente un mercato delle pulci, dove sono in vendita stracci e brandelli dell’era passata: radio fuori uso, tubi catodici d’epoca, motori fuoribordo, una miscellanea di meccanismi, ruote, macchine fotografiche, rasoi elettrici, telefoni, pompe, giroscopi, aspirapolvere, pile, laser, calibri, registratori, calcolatori, microscopi, fonografi, lavatrici, prismi, amplificatori, i relitti del ricco ventesimo secolo tutti arenati su questa strana spiaggia. Tutto parrebbe rotto o difettoso, ma gli affari fervono comunque per i commercianti. Shadrach non riesce nemmeno a provare a indovinare a quali usi possano trovarsi destinati ora, nell’entroterra palestinese, questi rimasugli e questi frammenti. Poi adocchia una cosa che desidera per la sua collezione medica personale: un piccolo ultramicrotomo lucido, utilizzato un tempo per preparare sezioni di tessuto per il microscopio elettronico; ma quando, invece di cominciare a discutere sul prezzo, tira fuori la sua piastrina di credito, il mercante si limita a fissarlo con uno sguardo vuoto, vagamente ostile. Il CRP ha disposto che le piastrine di credito debbano essere accettate dovunque come mezzo di pagamento, ma il vecchio arabo, dopo aver esaminato senza troppo interesse la striscetta di plastica lucida, la restituisce a Shadrach senza un commento e si allontana. Ai margini del mercato c’è un Citpol che, a quanto sembra, ha osservato la transazione abortita. Shadrach potrebbe chiamare il poliziotto e chiedergli di far sì che il mercante onori la piastrina, ma decide di lasciar perdere; ci potrebbero essere delle complicazioni imprevedibili, anche dei pericoli, e Shadrach non desidera attirare l’attenzione in questo posto. Abbandona il microtomo e si incammina verso sud attraverso strade più tranquille, una zona residenziale.
Dopo qualche minuto arriva a dei gradini che scendono fino a un ampio spazio aperto, una piazza pavimentata a ciottoli, e al lato opposto della piazza c’è un muro immenso fatto di blocchi titanici di pietra. Shadrach attraversa la piazza, dirigendosi verso il muro mentre studia la pianta e cerca di orientarsi. Ricorda di aver girato a sinistra, poi a sinistra una seconda volta alla Strada della Catena; forse è nel vecchio Quartiere Ebraico, rivolto verso la Moschea della Rocca e l’Aqsa, nel qual caso…
— Dovrebbe tenere il capo coperto in questo luogo — dice calma una voce alla sua destra. — Sta calpestando suolo sacro.
Un ometto di settant’anni o più, abbronzato e dall’aria vigorosa, gli si è avvicinato. Porta una
— Non è suolo sacro tutta la città? — chiede Shadrach, accettando il copricapo.
— Sì. Ogni centimetro quadrato è sacro a qualcuno. Gli arabi hanno i loro luoghi, e così i copti, gli ortodossi greci, gli armeni, i cristiani siriani, tutti. Ma questo è nostro. Non conosce il Muro? — È impossibile sbagliarsi sulla maiuscola nella voce dell’uomo.
— Il Muro — dice Shadrach, imbarazzato. Fissa i grandi blocchi di pietra, poi la sua cartina. — Oh. Ma certo. Intende dire che questo è il Muro del Pianto? Non mi ero reso conto…
— Il Muro Occidentale, lo chiamavamo, dopo la riconquista del 1967, quando il pianto si era interrotto per un certo periodo. Ora è di nuovo il Muro del Pianto. Anche se io personalmente non credo molto nel pianto, perfino in tempi come questi. — L’ometto sorride. — Con un nome o con l’altro, per noi ebrei è quanto vi sia di più sacro. Ciò che resta del Tempio. — Un’altra maiuscola.
— Il Tempio di Salomone?
— No, non quello. I Babilonesi distrussero il Primo Tempio, ventisette secoli fa. Questo è il muro del Secondo Tempio, il Tempio di Erode, raso a zero dai Romani sotto Tito. Il Muro è tutto ciò che i Romani lasciarono in piedi. Lo riveriamo perché per noi è un simbolo non solo di persecuzione ma anche di resistenza, di sopravvivenza. È a Gerusalemme per la prima volta?
— Sì.