Eccomi qui, anni e anni luce da casa, su un pianeta di un altro sistema solare, a dimostrare che Perdita aveva ragione.
Indossai i jeans e vi infilai dentro il pannolino. Con un po’ di fortuna, sarebbe rimasto al suo posto.
Tirai fuori il frutto color indaco — i bruchi erano ancora vivi — e tagliai via la parte che era stata rosicchiata dall’animale arboricolo. Mangiai il resto. Era dolce e pastoso. Non male, sebbene preferissi frutta un po’ meno matura.
E poi? Incominciavo a sentirmi affamata, ma non abbastanza da mangiare i bruchi. Avrei dovuto trovare un uso per loro. Sarebbe stato uno spreco lasciarli morire. Se non potevano costituire la cena, sarebbero serviti da esca.
Lanciai un’occhiata al cielo. Era ancora pieno di luce. Avrei dovuto avere il tempo di fabbricare una trappola per i pesci. Avevo visto una pianta al centro dell’isola che probabilmente sarei riuscita a utilizzare.
Portai all’ombra la mia sporta piena di larve, la lasciai lì e tornai nella foresta.
C’era una leggera depressione al centro dell’isola. Il terreno era paludoso e la principale forma di vegetazione era qualcosa che somigliava a una canna. Ogni pianta consisteva di un unico stelo violaceo alto poco più di due metri. In cima a ogni stelo c’era una cresta fatta di fibre color magenta, simili a fili di ragnatela, tanto erano sottili e delicati.
Tagliai una dozzina di steli. Mentre segavo, le piante tremolavano e le fibre color magenta si staccavano.
Quando ebbi quasi finito, notai che tutte le piante perdevano le loro fibre, anche quelle che non avevo toccato affatto e alle quali non mi ero neppure avvicinata. Alcune delle fibre caddero lentamente al suolo e finirono nel fango. La maggior parte si allontanò fluttuando, attorcigliandosi e avvolgendosi, portata da correnti che non riuscivo a sentire. Qualcuna mi cadde addosso. Erano comuni, come filo. Me le spazzolai via con la mano e finii di tagliare. Quando ebbi terminato, l’intera pianta era spoglia.
Non ero in grado di stabilire quanto avesse visto il mio registratore, che penzolava e oscillava all’estremità della sua catena. Descrissi ad alta voce quello che era successo. — Ritengo che le fibre siano fiori o forse stoloni che viaggiano nell’aria. Le piante li liberano quando vengono ferite. In qualche modo le piante sono collegate. Una ferita inferta a una è una ferita a tutte. Se mi sbaglio e le fibre sono un sistema di protezione, forse questo messaggio servirà da avvertimento. — Riportai alla spiaggia i miei steli.
Ora, della corda. Decisi di usare il mio calzino. Era fatto di un filato veramente eccezionale, un misto di cotone e fibra sintetica, non assorbente come il cotone ma di gran lunga più resistente. Il calzino non aveva un buco, neppure dopo tutto il viaggiare che avevo fatto.
Fabbricai la mia trappola, fermandomi di quando in quando a chiudere gli occhi e a cercare d’immaginare Nia al lavoro, mentre piegava e fissava i rami. Aveva dita abili, il dorso coperto di pelliccia bruna. Il palmo nudo e scuro. Avambracci muscolosi. E la voce, profonda e lenta, spiegava quello che stava facendo.
Quanto mi mancavano quelle persone!
Vi misi anche una pietra come peso, come mi aveva detto lei, e poi i bruchi. Questi stavano diventando meno vivaci. Entrai con i piedi nel fiume. In quel tratto, di fronte alla mia spiaggia, era poco profondo. C’era un’insenatura protetta da un groviglio di detriti di legna. Dove questi finivano, il fondo del fiume scendeva. Da trasparente l’acqua diventava di un bruno verdognolo scuro e opaco. Un salto. Sistemai lì la mia trappola, proprio accanto al salto e vicino al groviglio di legna.
Tornai a riva e guardai giù nell’acqua. C’erano tracce nella sabbia. Ne seguii una. Scavai dove finiva.
Gettai la creatura sulla riva e continuai la mia caccia. Trovai una mezza dozzina di quegli animali. Decisi di chiamarli calamari. I gusci andavano dai cinque ai dieci centimetri di lunghezza e gli animali mi sembravano commestibili. Più dei bruchi o delle diverse piante che avevo raccolto.
Il sole ormai era basso. La mia spiaggia era in ombra. Raccolsi della legna e accesi un fuoco. Spuntarono le stelle. Avvolsi un calamaro con delle foglie e l’arrostii nella brace. Sfrigolò ma non lanciò strida, cosa di cui fui grata. Ero disposta a uccidere animali e a mangiarli, accettavo quell’aggiunta al mio fardello karmico, ma non mi andava che le mie vittime fossero chiassose.
Tolsi dal fuoco l’involto di foglie e lo scartocciai. Il guscio era ancora grigio, i tentacoli avevano preso un bel color rosso ciliegia. Aprii il coltello ed estrassi l’animale dal guscio. Il corpo era a forma di cono e screziato di rosso e arancione. L’annusai. Non aveva alcun odore particolare. Lo aprii. Dentro non c’era niente di ripugnante. Non c’erano visceri pieni di sostanza nera, né alcuna sacca di inchiostro o veleno. Non c’erano lische né aculei.