— Non noi personalmente — precisò Derek. — Stanno tenendo sotto osservazione le nostre colture. Se entro domani sera non accadrà niente di strano o di terribile, potremo tornare a lavorare.
Eddie sembrava impaziente, ma lasciò che Derek finisse di parlare. Poi si protese in avanti. — La Ivanova e io vogliamo che tu venga con noi quando risaliremo il fiume.
Feci il gesto che significava "lo so".
— Ci verrai?
— Sì.
Premette di nuovo il tasto. Un’altra riga di caratteri sparì. — Derek ha suggerito di chiedere a Nia e all’oracolo di venire con noi.
— Non so se sia una buona idea. Nia viene da quel villaggio. Loro l’hanno mandata in esilio. Non le faranno del male se tornerà, ma è probabile che non le riservino un’accoglienza particolarmente calorosa.
— Chiediglielo — fece Derek.
— Perché vuoi che venga?
— Lei e l’oracolo ne sanno di più sugli umani di chiunque altro su questo pianeta. Potrebbero avere qualcosa di utile da dire sul problema che abbiamo per le mani. E non voglio lasciare loro due da soli in mezzo a un posto estraneo. Non possiamo dare loro viveri, e non so come la penseranno le persone riguardo al problema di fornire loro utensili e armi. Dio solo sa che cosa accadrà se questi selvaggi si procureranno ami da pesca o coltelli con la lama di acciaio inossidabile. E… — Sorrise. — Mi preoccupa l’idea di lasciarli qui indifesi. Quelli del team medico vogliono esaminarli. E così i biologi e gli psicologi e…
— Che cosa ne pensi? — domandò Eddie.
Finii la focaccina, mandandola giù con il caffè. — Tanto vale chiederglielo. Derek ha ragione. Nia ha una certa esperienza dell’umanità. Non possiamo lasciarla sola sulla pianura. E non vorrei proprio tornare e scoprire che se ne è andata a causa di quelli del team medico. Non mi stupirei se lo facesse. Non è del tutto a suo agio con noi, e un esame medico può essere abbastanza disumanizzante, perfino quando si sa che cosa sta succedendo.
Eddie annuì. Altri caratteri sparirono dal taccuino. Vi diedi un’occhiata. Lo schermo era vuoto fatta eccezione per due caratteri. Strizzai gli occhi. Il numero quattro e un punto interrogativo. — È tutto?
Lui mi guardò con aria malinconica, gli occhi non riparati dalle lenti. Indossava una camicia azzurra questa mattina: semplice chambray, aperta sul collo a rivelare una collana d’osso e conchiglie. I capelli erano trattenuti da un fermaglio sulla nuca. Il fermaglio era guarnito di perline: un disegno geometrico. Lavorazione Dakota come la collana. La maggior parte dei suoi antenati erano Anishinabe, ma alcuni provenivano dai Sette Fuochi del Consiglio. Altri erano francesi o inglesi.
— C’è ancora una cosa. — Esitò.
— Gliene ho parlato — disse Derek.
— Che ne pensi, Lixia?
— Credo che sia un’idea disgustosa.
Eddie sospirò. La riga numero quattro sparì. Lui spense il taccuino e lo chiuse, ripiegando lo schermo sulla tastiera. Il taccuino era ancora troppo grande per entrare in una normale tasca. Il problema era costituito dalle dita umane. Non erano state miniaturizzate. La tastiera doveva essere larga almeno venti centimetri perché la maggior parte delle persone potessero usarla.
— È quello che temevo — disse Eddie. — Ti parlerò più tardi. Per favore, incomincia con il rapporto. — Si allontanò, portando il taccuino in una mano.
— Sarà una conversazione spiacevole — osservai.
Derek fece il gesto dell’assenso.
— Se tu gli avessi detto di no, avrei potuto evitarla.
— Uuh.
— Se tu gli avessi detto di no, sarebbe in collera con te. Ora si arrabbierà con me.
— Forse.
— Avevi programmato tutto?
— Io non programmo affatto quanto credi.
— Mmm. — Portai i miei piatti al tavolo riciclante, poi mi recai nella cupola degli approvvigionamenti e mi procurai un taccuino con una memoria di 256 K.
Trascorsi la mattinata nella mia stanza. Per prima cosa buttai giù le storie che avevo sentito la sera prima: il Popolo il cui dono è la follia.
Dopo di che feci un abbozzo del mio rapporto.
Smisi a mezzogiorno e andai a prendermi un sandwich. Mi stavo perdendo una splendida giornata. Grosse nuvole viaggiavano nel cielo. Il lago scintillava. C’erano persone sulla banchina, che scaricavano altre casse. Mi riportai il sandwich nella mia stanza e lo mangiai mentre scrivevo.
Alla fine mi accorsi che mi faceva male la schiena. Dalla finestra non entrava più la luce del sole e il cielo era più verde che azzurro. Il colore del pomeriggio inoltrato. Salvai il mio lavoro e spensi il taccuino, poi mi alzai e mi stiracchiai.
Era troppo presto per la cena. In ogni caso, non avevo fame. Decisi di fare una passeggiata.
Mi diressi a sud lungo il lago. La spiaggia era piatta e relativamente larga. Ci si camminava agevolmente. Qui e là un torrente scendeva dalla scogliera. Erano piccoli e quasi asciutti. Li superai.
La spiaggia si restringeva. La vegetazione incombeva sulla mia destra e sentivo l’odore umido e opprimente di una foresta. Mi voltai a guardare. Il campo era nascosto alla vista.
—