Le tastai la gola. Ah! C’erano pulsazioni, forti e regolari, forse un po’ frequenti. Non potevo esserne sicura. Mi avvicinai al fuoco, trovai un ramo che bruciava ancora e me lo portai dietro. Che cosa c’era che non andava? La tunica di Nia era stracciata e uno dei bordi strappati bruciava ancora senza fiamma, ma non vidi altri segni di bruciature. Mi inginocchiai e le esaminai le mani. Un palmo era gonfio. Forse quella era una bruciatura. Toccai il palmo. Nia trasalì ed emise un gemito.
— Sei sveglia?
Lei batté le palpebre.
— Dove ti fa male?
Nia corrugò la fronte. — La mano e la gamba.
Le tastai le gambe. Non c’era sangue. Non trovai ferite.
— La caviglia — disse.
Le toccai la caviglia sinistra. Lei trasalì di nuovo. La premetti. Nia si lamentò. Qualcosa non andava in quel punto. Ma che cosa? Come facevo a capire se c’era qualcosa di rotto o fuori posto? Non sapevo come dovesse essere al tatto una caviglia. Non su quel pianeta. Non la caviglia di un’aliena. Riflettei un momento. C’era sempre una simmetria bilaterale. Esaminai la caviglia destra, poi tornai a controllare la sinistra.
— Sembrano uguali al tatto.
Nia si accigliò. — A te. Non a me. Su che cosa sono sdraiata?
— Sull’uomo.
—
— Non voglio che tu ti muova.
— E io non voglio stare sdraiata su un cadavere.
Corrugai la fronte, cercando di ricordare le mie cognizioni di pronto soccorso. Sarebbe stato giusto muoverla? Facevo fatica a concentrarmi, forse perché avevo appena contribuito a uccidere qualcuno e il corpo si trovava proprio di fronte a me.
Nia si stava sforzando di mettersi seduta. Misi giù la mia torcia elettrica e l’aiutai a sollevarsi dal morto. — La tua schiena è a posto? — m’informai. — Ti sei fatta male da qualche altra parte? Senti qualche altro dolore?
— Te l’ho detto. Alla mano e alla gamba. Nient’altro. Credo che mi sdraierò.
La feci coricare al suolo con cautela. Lei giacque lunga distesa accanto al morto. Mi alzai e afferrai l’uomo per le braccia. Era pesante, molto più pesante di Nia, e completamente floscio. Riuscii a tirarlo per circa un metro, poi rinunciai e lo lasciai andare. Le sue braccia colpirono il suolo con un tonfo sordo. — Questo è tutto. Se ne resta lì.
— Non mi sento bene — si lamentò Nia.
Non pensavo che avesse una gamba spezzata, ma non ne ero certa. Meglio applicare una stecca, e procurarmi dell’acqua fredda per la mano. E un mantello. Poteva benissimo trattarsi di un collasso.
— Avrò bisogno della tua pentola per cucinare.
— Prendila. Che uomo forte! Ho fatto un errore. Pensavo che fosse vecchio o molto giovane. Non sono intelligente come mi ritenevo.
Presi il suo mantello e la coprii, poi andai al fiume con la pentola per cucinare, la riempii d’acqua e la riportai indietro. — Mettici dentro la mano. Farà bene alla bruciatura. Io riaccendo il fuoco.
Nia fece il gesto dell’assenso. Andai a raccogliere legna. Quando il fuoco si fu ravvivato, preparai una stecca. Avevo una fasciatura elastica nella mia cassetta del pronto soccorso. Come imbottitura usai la mia maglietta e un paio di calzini di ricambio.
— Spero che sia una cosa temporanea — dissi. — Ho bisogno di quei calzini. Come va la mano?
— Meglio, ma ora mi fa male la spalla.
Tirai indietro il mantello. La pelliccia su una spalla era arruffata. La toccai e mi guardai la mano. Le dita erano rosse. — Un’altra ferita. Quell’individuo ti ha conciata ben bene.
— Ho capito quando l’ho visto che ero nei pasticci. Ma era troppo tardi per cambiare il mio piano. È una brutta ferita?
Presi un pezzo di garza e pulii dal sangue la ferita. — È un’incisione. Deve averti raggiunta con la punta del coltello. — Esaminai il contenuto della mia cassetta del pronto soccorso. Che cosa potevo usare che non fosse pericoloso? Nia non era umana. Non avevo idea di come avrebbe reagito a un qualunque farmaco umano.
Ebbi brevi e terribili fantasie su reazioni allergiche, reazioni tossiche, collasso e morte.
Ma la ferita andava protetta. Non pensavo che una fasciatura potesse essere in alcun modo dannosa.
Tirai fuori il barattolo. — Questo brucerà soltanto un pochino. — Schiacciai il pulsante.
—
La ferita sparì. Al suo posto c’era una piccola pezza scura di plastica. La pezza era grumosa e da sotto sporgevano ciuffi di peli, ricoperti da uno strato di plastica. Idiota! mi dissi. Avrei dovuto radere la zona attorno alla ferita. Be’, non l’avevo fatto, e ormai la cosa migliore da fare era di lasciare in pace la ferita. Mi dondolai all’indietro sui talloni. — Qualcos’altro?
— No. — Nia tirò fuori la mano dalla pentola, poi fece una smorfia. — Questa fa ancora male.
— Vado a prendere altra acqua.
Mi recai al fiume, riempii di nuovo la pentola e la portai indietro. Nia vi immerse la mano. I suoi occhi erano quasi chiusi. Ebbi l’impressione che fosse sfinita. Le rimboccai il mantello attorno al corpo.
— Grazie. — Aveva la voce assonnata. Chiuse gli occhi.