Per ricoprire completamente la Norvegia sarebbe dovuta cadere in mare quella cometa che s'ipotizzava avrebbe potuto distruggere l'umanità. Il Paese era una montagna unica, contornata da coste a picco il cui margine superiore difficilmente poteva essere raggiunto dalle onde.
Ma la Norvegia viveva sull'acqua e grazie all'acqua. Quasi tutte le città più importanti erano sul mare, ai piedi d'imponenti montagne, protette da piccole isole piatte. Oppure sorgevano proprio sulle ìsole. Città portuali come Egersund, Haugesund e Sandnes, a sud, erano condannate dall'onda che si stava avvicinando. E lo stesso si poteva dire di Ålesund e Kristiansund, più a nord, e delle centinaia di paesi tutt'intorno.
La sorte peggiore toccò a Stavanger.
Lo sviluppo di uno tsunami nel momento in cui raggiungeva la costa dipendeva da diversi fattori: dalle scogliere, dalle foci dei fiumi, dalle montagne sottomarine, dai banchi di sabbia, dalle isole che si trovavano davanti alla costa e dalla pendenza delle spiagge. Tutto ciò poteva ridurre o aumentare l'effetto dello tsunami. Stavanger, il centro dell'industria offshore norvegese, città chiave del commercio e della navigazione, una delle più antiche, belle e ricche città della Norvegia, sorgeva direttamente sul mare, di fatto senza protezione. All'esterno del porto, si stendeva una serie di basse isolette, collegate da ponti. Immediatamente prima dell'arrivo dell'onda, il governo norvegese aveva mandato alle autorità cittadine un messaggio di allarme che doveva essere diffuso immediatamente via radio, televisione e Internet. Ma restava pochissimo tempo. Un'evacuazione non era neppure ipotizzabile. L'avviso scatenò una confusione indescrivibile. Nessuno sapeva esattamente che cosa si stava abbattendo su Stavanger. A differenza degli Stati costieri del Pacifico, costretti da sempre a convivere con gli tsunami, in Europa e nel Mediterraneo non c'erano centri di allerta. Mentre il PTWS — acronimo di Pacific Tsunami Warning System — con sede principale nelle Hawaii, era diffuso in oltre venti Stati del Pacifico, dall'Alaska al Giappone e dall'Australia fino al Cile e al Perú, in un Paese come la Norvegia il fenomeno degli tsunami era pressoché ignoto. E anche per questo motivo, gli ultimi minuti di Stavanger furono dominati da una sensazione di terrore impotente.
L'ondata colpì la città senza che nessuno fosse riuscito a mettersi in salvo. Lo tsunami continuò a crescere anche dopo aver distrutto i piloni dei ponti tra le isole, sollevandosi in tutti i suoi trenta metri. A causa della notevole lunghezza dell'onda, non ripiegò subito su se stesso, ma si schiantò contro le protezioni del porto, ridusse a pezzi banchine ed edifici e continuò a correre velocissimo verso la città. La città vecchia, con le sue case di legno del tardo XVII secolo e dei primi del XVIII secolo, fu rasa al suolo. A Vågen, l'antico bacino portuale, l'ondata s'ingorgò e ricadde sul centro della città.
I flutti distrussero il più vecchio edificio di Stavanger, la cattedrale, che risaliva al 1125. Prima abbatterono tutte le finestre, poi i muri e infine si trascinarono appresso le macerie. Con la violenza di un attacco missilistico, l'onda spazzò via tutto ciò che incontrava sulla sua strada. E non era solo l'acqua a distruggere la città, ma anche il fango che essa trascinava con sé, insieme con tonnellate di pietre, navi e automobili, sparate come proiettili.
La parete verticale si era trasformata in una montagna scrosciante di spuma. Lo tsunami si muoveva un po' più lentamente in mezzo alle strade, ma in compenso era molto più caotico. Nella spuma era imprigionata dell'aria che veniva compressa nell'impatto fino a una pressione di oltre quindici bar, sufficiente per deformare una lastra corazzata. L'acqua spezzava gli alberi come se fossero stati fiammiferi e li trasformava in proiettili. Neppure un minuto dopo aver colpito i primi sbarramenti del porto, l'onda aveva già distrutto la zona portuale e il quartiere immediatamente retrostante.