Astronomi ed esobiologi erano arrivati a una conclusione: per avere temperature superficiali tali per cui, nel giro di uno o due miliardi di anni, si potesse sviluppare una vita intelligente, un pianeta non doveva possedere meno dell'85 per cento e più del 133 per cento della massa terrestre. Dalle dimensioni di quei pianeti virtuali risultavano diversi scenari riguardanti la forza di gravità, che a sua volta poteva fornire indicazioni sulla costituzione fisica delle specie che li abitavano. Teoricamente, su un pianeta simile alla Terra, un essere vivente poteva crescere senza limiti. In pratica, però, la sua crescita terminava nel momento in cui esso diventava troppo pesante per reggere il suo stesso peso. Naturalmente i dinosauri avevano ossa sovradimensionate, ma, in un certo senso, il cervello era rimasto indietro. Il loro organismo sembrava costruito esclusivamente per permettere loro di spostarsi — a fatica — e mangiare. Per gli esseri intelligenti dotati di mobilità valeva la regola generale che non dovevano superare i dieci metri.
Ancora più entusiasmante era la questione del limite inferiore della crescita. Le formiche potevano sviluppare l'intelligenza? E che dire dei batteri o dei virus?
Gli scienziati del SETI e gli esobiologi avevano una lunga serie di argomenti su cui discutere. Era praticamente certo che, nei settori più «familiari» dello spazio, non c'era nessuna forma di civiltà simile a quella umana. Ciò si poteva sostenere quantomeno nel sistema solare. Al massimo, c'era la speranza di scoprire su Marte o su una delle lune di Giove qualche spora e forse addirittura un organismo unicellulare. Quindi si cercava la più piccola unità funzionante che potesse essere definita vita, con cui si potesse arrivare inevitabilmente a una molecola organica complessa, il più minuscolo sistema informativo e di memoria immaginabile, con una propria infrastruttura. E quindi si arrivava alla domanda se una molecola poteva sviluppare l'intelligenza.
Indubbiamente una molecola non poteva.
Ma non era intelligente neppure la singola cellula nervosa del cervello umano. Per rendere intelligente un uomo erano necessari cento miliardi di cellule e ciò era in relazione alle sue dimensioni corporee. Un essere intelligente più piccolo dell'uomo probabilmente avrebbe avuto bisogno di meno cellule, ma le dimensioni delle molecole di cui esse erano costituite sarebbero rimaste uguali e, al di sotto di un certo numero di molecole, non poteva accendersi la scintilla dell'intelligenza. Il problema con le formiche era proprio quello. Forse si poteva attribuire loro un'intelligenza inconsapevole, ma il loro cervello aveva comunque un numero troppo limitato di cellule per «mirare» a un'intelligenza superiore. Inoltre, poiché le formiche non respiravano coi polmoni, ma conducevano l'ossigeno direttamente nelle cellule attraverso le trachee, non potevano crescere — oltre certe dimensioni la respirazione attraverso il corpo non funzionava più — e quindi non potevano sviluppare un cervello più grande. Così, come tutti gli insetti, arrivavano in un vicolo cieco dell'evoluzione. Gli scienziati ritenevano che il limite inferiore delle dimensioni corporee per un essere intelligente fosse dieci centimetri, e quindi la possibilità di trovare un Aristotele che zampettava era praticamente pari a zero. Figuriamoci un Aristotele unicellulare.
Mentre lavorava al computer, tentando di spiegare il rapporto tra organismi unicellulari e intelligenza, Karen rifletteva su queste cose. Poche ore dopo la scoperta fatta in laboratorio, la questione se la gelatina fosse davvero intelligente suscitava, sull'
Cosa aveva portato gli uomini a un tale livello?
O quella gelatina era effettivamente solo una massa apatica, oppure nascondeva un trucco.
Era effettivamente riuscita a guidare balene e granchi.