«Ognuno di loro ha un compito specifico, determinati movimenti che deve eseguire. Ma nessuno di loro conosce il progetto per intero. Tuttavia costruiscono la casa. Se tu ne sostituissi qualcuno, ci sarebbe un blocco. Dieci operai che formano una catena per passarsi le pietre cadrebbero in confusione se improvvisamente uno di loro fosse sostituito da uno che deve avvitare.»
«Capisco. La cosa funziona finché ciascuno resta al proprio posto.»
«Funzionano insieme.»
«E tuttavia alla sera vanno a casa.»
«Vanno ciascuno nella propria direzione. Il giorno successivo, sono di nuovo tutti al cantiere e proseguono. Potresti dire che il lavoro funziona perché c'è qualcuno che suddivide gli operai, ma senza operai la casa non si potrebbe costruire. Un elemento ha bisogno dell'altro. Dal progetto deriva l'effetto della collaborazione e, a sua volta, da quella deriva il progetto.»
«Quindi c'è un progettista.»
«Oppure gli operai sono il progetto.»
«E ogni operaio deve essere codificato in maniera leggermente diversa rispetto ai suoi colleghi.»
«Esatto. Gli operai sono uguali solo in apparenza. Ricominciamo da capo. Okay, c'è un progetto. Okay, loro sono codificati. Ma cosa ti serve perché diventino una rete?»
Karen rifletté. «La volontà di collaborare?»
«Una cosa più semplice.»
«Hmm…» Poi, improvvisamente, comprese. «La comunicazione. Una lingua che tutti capiscano. Un messaggio.»
«E cosa dice il messaggio quando, al mattino, tutti si alzano dal letto?»
«Vado al cantiere, a lavorare.»
«E dunque?»
«So che cosa devo fare.»
«Già. Be', sono operai poco adatti a una conversazione complessa. Sono tipi che lavorano sodo. Sudano costantemente, sudano anche di notte a letto e al mattino quando si alzano, sudano per tutto il giorno. Come fanno a riconoscersi tra loro?»
Karen lo guardò con un'espressione tirata. «Dall'odore di sudore.»
«Bingo!»
«Certo che ne hai di fantasia.»
Anawak sorrise. «È colpa di Sue. Ha raccontato prima di quel batterio che forma delle colonie…
Karen annuì. Aveva senso. L'odore era una possibilità.
«Ci penserò in piscina», disse. «Vieni anche tu?»
«A nuotare? Adesso?»
«A nuotare? Adesso?» lo scimmiottò. «Stammi a sentire, di solito non me ne sto chiusa in una stanza e inchiodata in un posto.»
«Pensavo fosse normale per i patiti di computer.»
«Ho l'aspetto di una patita di computer? Sono pallida e flaccida?»
«Oh, sei senza dubbio l'apparizione più pallida e flaccida che mi sia mai capitato di vedere», rise Anawak.
Notò lo scintillio negli occhi di Karen. Anawak era piccolo e tarchiato e non sembrava davvero George Clooney, ma in quel momento le sembrò bello e sicuro di sé.
«Che stupido», disse, ridendo.
«Grazie.»
«Solo perché hai trascorso metà della tua vita in acqua, sei convinto che chi si occupa di computer sia cresciuto appiccicato a una sedia. La maggior parte delle cose le faccio all'aria aperta. Con la mia testa, Leon! Metto il laptop nello zaino e via, camminare! Si può scrivere anche su una roccia, sai? Questa ricerca m'innervosisce. Mi sento le spalle come se fossero travi d'acciaio.»
Anawak si alzò e si portò dietro di lei. Per un momento, Karen pensò che se ne volesse andare. Poi sentì le sue mani sulla nuca, sulle scapole.
Le stava facendo un massaggio.
Karen s'irrigidì. Non era sicura che le piacesse.
Certo che le piaceva. Però non era sicura di volerlo.
«Non sei contratta», commentò Anawak.
Aveva ragione. Perché l'aveva detto?
Nel momento in cui si alzò dalla sedia, un po' troppo bruscamente, facendo scivolare via le mani di Anawak, Karen comprese che stava commettendo un errore. Le sarebbe piaciuto restare lì, seduta, e lasciarlo continuare. E invece mormorò, imbarazzata: «Io vado a nuotare», e uscì.
Anawak
Si chiese cos'era andato storto. Sarebbe andato volentieri con lei in piscina, ma l'atmosfera era cambiata di colpo. Forse doveva chiederle il permesso di farle un massaggio alle spalle. Forse aveva valutato male la situazione.