«Sue è stata qui. Talvolta viene anche Peak, per vedere se è tutto a posto. Tutti mi raccontano qualcosa, non c'è neppure bisogno di chiedere.»
Anawak fissava dritto davanti a sé. Sentiva la rabbia crescere. «Allora non hai bisogno di me», disse indispettito.
Greywolf non rispose.
«Allora vuoi restare qui a fare la muffa?»
«Lo sai che preferisco la compagnia degli animali.»
Greywolf si bloccò per qualche istante. Poi riprese ad armeggiare col cacciavite nella telecamera. «Non si tratta di questo.»
«E di che cosa, allora?»
«Che vuoi, Leon?»
«Che voglio?» Anawak rifletté. Non era gentile. Di fronte a tutto quello che stava soffrendo Greywolf, non era per nulla gentile. «Non lo so, Jack. Ti dico apertamente che me lo chiedo anche io.»
Si girò per andarsene.
Quando ebbe quasi raggiunto il tunnel, sentì Greywolf dire a bassa voce: «Aspetta, Leon».
Ricordo
Johanson si assopì.
Era stanco morto. La notte precedente gli era penetrata fin nelle ossa. Era seduto davanti alla console, mentre Sue, nel laboratorio sterile, produceva i feromoni concentrati degli yrr. Avevano deciso di metterne una parte nel simulatore. La massa gelatinosa era sparita e l'acqua era intorbidita dal gran numero di unicellulari. Era probabile che si fosse momentaneamente sciolta e avesse interrotto la luminosità. Gli scienziati speravano che, introducendo l'estratto di feromone, avvenisse la fusione, così loro avrebbero potuto condurre altri test.
I ricordi bloccati.
Dall'ultima riunione, la situazione era peggiorata. Una frase di Judith Li aveva rimesso in movimento la sua slitta per le diapositive. Erano state poche parole, ma avevano riempito tutta la sua mente, impedendogli di concentrarsi sul lavoro. Quel continuo riflettere era snervante. La testa di Johanson si rovesciò lentamente all'indietro e lui cadde in un sonno leggero. Galleggiava sulla superficie della coscienza, prigioniero del loop infinito generato dalle parole di Judith.
Da qualche parte arrivò alle sue orecchie un rumore. Sue aveva già finito con la sintesi dei feromoni? Per un attimo, riemerse dal sonno, socchiuse gli occhi nell'illuminazione del laboratorio e poi li richiuse.
Luce fioca.
Il ponte dell'hangar.
Un rumore metallico, strascicato, leggero. Johanson si spaventa. All'inizio non sa dove si trova. Poi sente la parete metallica contro la schiena. Sul mare, il cielo si è schiarito. Si tira su a fatica e guarda lungo la parete.
Si è aperta.
Una porta si è aperta e risplende, luminosa. Dall'interno esce una luce bianca. Johanson scivola giù dalla cassa. Da come gli dolgono le ossa, deve aver trascorso lì molte ore. Un vecchio. Si avvia lentamente verso il quadrato luminoso da cui inizia un corridoio con le pareti nude. Ora lo riconosce. Lampade al neon si allineano sul soffitto. Dopo qualche metro, la parete fa una curva.
Johanson spia all'interno e ascolta.
Voci e rumori. Fa un passo indietro. Cosa c'è dietro l'angolo? Deve entrare?
Johanson esita.
Esita.
Improvvisamente si rompe una barriera.
Entra. Sui lati ci sono solo pareti spoglie. Va a destra. Ancora un gomito, stavolta nell'altra direzione. È un corridoio molto largo, ci potrebbe passare un'auto. Ancora rumori, voci, stavolta più vicini. La fonte deve essere dopo il secondo gomito. I suoi passi lo portano lentamente alla svolta, a sinistra, e là c'è…
Il laboratorio.
No, non
Johanson guarda la scena, incredulo.
Quella sala è una copia perfetta, ma più piccola, del settore sottostante. Sono allineati diversi tavoli. Apparecchiature. Contenitori con azoto liquido. Una console con vari monitor. Un microscopio elettronico. Sullo sfondo, su una porta di vetro blindato, un simbolo di pericolo biologico. Ancora oltre, una porta aperta conduce in un corridoio più stretto.
E là ci sono delle persone.