Fermo nel minuscolo corridoio che costituiva l’ingresso agli appartamenti dei piani più alti, Redpath guardò con una smorfia la boutique sulla destra, e il suo malumore divenne più intenso. Le due ragazze erano già arrivate, però stavano sistemando la merce sugli espositori e gli voltavano la schiena, il che rendeva impossibile uno scambio di cenni di saluto.
“Tanto non avranno nemmeno capito la battuta” pensò. “Problemi di comunicazione. Probabilmente ridono solo per cortesia. O per nervosismo. Dovevo spiegarglielo per bene la prima volta… State a sentire, in francese ‘boutique’ vuol dire negozio, per cui la vostra insegna dice che questo è un negozio del negozio, che voi vendete negozi. Chiaro? Afferrata la battuta?”
Redpath desiderò, in maniera intensissima, che Leila Mostyn avesse trascorso la notte con lui. Era convinto che non sarebbe successo niente se un’ora prima, quando si era svegliato, l’avesse trovata al suo fianco. E persino un’autorità come il dottor Hyall ammetteva che avrebbe tratto beneficio dal calore e dalla dolcezza di una relazione fissa. Raddrizzò le spalle e si incamminò in quella specie di tunnel che portava al parcheggio, sul retro dell’edificio. Dato che la legge gli proibiva di prendere la patente, Redpath godeva del privilegio di essere l’unica persona di Bingham Terrace (compreso il vecchio signor Coates) a non possedere l’auto. La sua bicicletta riposava, solitaria, sotto la tettoia in un angolo del parcheggio rettangolare. Sempre pensando a Leila, tolse la catena alla bicicletta e pedalò fino alla strada. Questa volta le ragazze della boutique lo videro, gli fecero un cenno di saluto. Redpath si fermò, alzò la mano a indicare l’insegna, e le ragazze si misero a ridere.
— Ma non saranno loro a prendere in giro me? — mormorò Redpath, e ricominciò a pedalare. Restò nel flusso del traffico diretto in centro per qualche centinaio di metri, poi svoltò a sinistra, in un quartiere residenziale. Adesso si trovava in una via più tranquilla, che l’avrebbe condotto quasi direttamente all’Istituto Jeavons. In genere, il fruscio delle ruote sull’asfalto e il ritmo costante delle pedalate lo aiutavano a pensare. Cercò di ripetersi mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Henry Nevison per comunicargli che si licenziava, ma il suo cervello si spostava di continuo sull’altra fonte di complicazioni che gli stava avvelenando l’esistenza.
Leila Mostyn era laureata in matematica. Da sei mesi stava facendo studi di statistica nel reparto ricerche, dove Redpath passava quasi tutta la giornata. L’aveva conosciuto, era stata informata della sua professione, e per qualche settimana lo aveva trattato con una gentilezza impersonale, come un ricercatore di cancerologia estremamente corretto nei confronti di un animale da laboratorio destinato alla dissezione. Redpath era rimasto conquistato da quell’aria di distacco sessuale, da quelle labbra pallide, dal camice bianco, dai vestiti severi, dall’atteggiamento freddo.
Aveva deciso di corteggiarla, sfruttando tutte le risorse dell’immaginazione e dell’intelletto. Per un mese avevano trascorso assieme, di tanto in tanto, la notte; dopo di che, lui era piombato in piena atmosfera romantica. Sapeva benissimo di essere malato e di non avere prospettive economiche, per cui non le aveva chiesto di sposarlo; però sperava di arrivare poco per volta a una relazione stabile, anche perché il lato sensuale della personalità di Leila diventava sempre più forte. Era stato un bel periodo. Poi aveva scoperto che lei non era un tipo morigerato; era solo discreta, e molto indipendente. Se passava una sola notte alla settimana con lui era perché spesso preferiva restare sola; e ogni tanto si sentiva libera di scegliere un partner in una cerchia di amicizie maschili della cui consistenza Redpath aveva idee molto approssimative.
Si era sentito ferito, offeso, truffato dal suo stesso egocentrismo ingenuo. Aveva finito con l’accettare la situazione, scoprendovi addirittura dei vantaggi, ma si trattava di un equilibrio instabile. Capiva fin troppo bene che il minimo tentativo di monopolizzare Leila avrebbe significato la fine della loro relazione; eppure una volta al giorno, come minimo, sentiva l’impulso suicida di esprimere la propria gelosia, di rimproverarla perché non era innamorata quanto lui, di imporre regole al comportamento di un’altra persona. L’impulso si faceva più forte ogni volta che la sua routine quotidiana subiva variazioni: siccome Leila gli aveva negato senza motivo il paradiso terrestre, se succedeva qualcosa era colpa sua. Era giunto addirittura al punto di ritenerla responsabile delle variazioni del proprio stato di salute. Sapeva che era una reazione irrazionale, infantile, ma non riusciva a frenarsi.
“Basta, è troppo” pensò. “Devo trovare un posto più sicuro.”