— John? — La voce di Leila era debole, incerta. — Dove l’hai preso?
— Cos’è? — Si alzò, le tolse di mano il pezzo di carta. Era l’angolo di una pagina di giornale, come immaginava; ma i caratteri tipografici era strani, distorti. Non gli sembrava di averli mai visti. La testata del giornale diceva: “Gilpinston Bugle, martedì 26 agosto 1980”.
Nell’attimo di silenzio che seguì, Redpath sentì il sangue che gli martellava implacabile nelle orecchie.
— Te l’ho già detto dove l’ho preso. — Ricadde a sedere sul letto, incapace di distogliere gli occhi da quelle righe di stampa. — A Gilpinston, nell’Illinois. Ci sono stato ieri. Ho cercato di afferrare il giornale, e quel pezzo dev’essermi rimasto in mano.
— John, ti prego, non…
— Come lo spieghi, Leila? Sei capace di spiegarlo?
Lei si sedette al suo fianco, gli mise le mani sulle braccia, lo strinse forte come per dargli sostegno. — John, ti prego, non ricominciare. Henry non aveva detto che Gilpinston esiste sul serio? Non ha detto che devi aver visto quel nome da qualche parte e aver assorbito l’informazione? Quindi…
— Ma guarda la data, per amor di Dio! — Redpath le mise sotto gli occhi il pezzo di carta. — È la data di ieri! Non capisci?
— In Inghilterra arrivano i giornali americani. Viaggiano per via aerea…
Redpath l’interruppe, trionfante, quasi urlando. — Da una piccola città dell’Illinois a un posto come Calbridge! In un giorno!
Leila tolse le mani dalle sue braccia. — C’è qualcosa che non quadra.
— È quello che ti ho sempre detto. — Redpath scattò in piedi e cominciò a passeggiare su e giù per la stanza, spinto dalla forza delle idee formate a metà che gli volteggiavano in testa. — Sai cosa significa, non è vero? Basta accettare un paio di idee nuove, poi diventa semplicissimo. Significa che Albert, il caro Albert, riesce a spostarsi con la sola forza del pensiero. In un istante può andare dove vuole. L’ha fatto al parco la prima volta che l’ho visto, e io non me ne sono accorto. Non se ne accorge nessuno, perché se ne va in giro con quella vecchia tuta marrone, e se te lo vedi spuntare davanti all’improvviso automaticamente pensi che ci fosse già, che eri troppo preso dai tuoi pensieri per accorgerti di lui. E ti dirò di più: può portarsi dietro altra gente! Ecco come ho fatto ad andare e tornare da Gilpinston, ieri. E stato Albert. Credo di non piacergli. Voleva spaventarmi a morte, e c’è riuscito. Dio, se c’è riuscito!
Le parole gli uscivano di bocca sempre più in fretta, le frasi diventavano sempre più brevi, perché c’era così poco tempo, perché le idee erano moltissime. Capì che il suo autocontrollo era saltato, che l’istinto galoppava più forte della ragione, ma non poteva farci niente. I suoi movimenti divennero frenetici, inconsulti.
— Stammi a sentire, Leila. Henry Nevison perde il suo tempo, all’istituto. Dovrebbe andare a Raby Street, se vuole studiare la parapsicologia. Quella casa! Stamattina ho pensato che fosse un ricovero per mostri in pensione, ma non sapevo di essere tanto vicino alla verità… Hanno tutti dei poteri. Poteri strani. Albert è capace di teleportare le persone. E Wilbur Tennent è chiaroveggente. Precognizione. La signorina Connie è un po’ come Albert, solo che trasporta oggetti. Si chiama psicocinesi, o telecinesi… E poi c’è Betty York. Non capisco cosa… Sì, lo so! E la componente fisica dell’insieme. È quello che Henry definirebbe il soma. Si prende cura degli altri, bada che mangino e via dicendo. E ha anche altri compiti. Ieri al parco non l’ho incontrata per caso. Era venuta a cercarmi. A cercarmi! Anch’io sono un mostro. Sono telepatico, e alla casa mancava un telepate. Forse è morto. Ci scommetto che quel Prince Reginald, quel tale per cui la polizia vuole interrogare Wilbur, abitava lì, e ci scommetto che è morto, e ci scommetto che io dovevo sostituirlo… Le capsule, Leila! Dammi le capsule! — Leila era pallida, preoccupata. Redpath la guardò, scosso. Prese dalle sue mani il flacone di Epanutin, e all’improvviso la carica nervosa che si era impossessata di lui sembrò svanire. Sorridendo debolmente, sedette accanto a lei sul letto, aprì il flacone con dita tremanti. Si sentiva malissimo, aveva freddo. — Sto bene — disse. Poi si infilò una capsula in bocca e l’inghiottì. — Non avere paura.
— Non ho paura.
— Questo attacco di follia mi passerà presto.
Lei gli sorrise, poco convinta. — È già passato.