Sdraiato di fianco sul ghiaccio, Michael Tolland posò la testa sul braccio disteso, ormai privo di sensibilità. Si sforzò di tenere aperte le palpebre, pesanti come piombo. Da quella strana angolazione, osservò le ultime immagini del suo mondo, ormai ridotto solo a mare e ghiaccio. La conclusione più naturale di una giornata in cui nulla era andato come previsto.
Una calma sinistra era scesa sulla zattera di ghiaccio. Rachel e Corky non parlavano più e i colpi erano cessati. Il vento soffiava con minore violenza a mano a mano che si allontanavano dalla banchisa. Sentì che anche il suo corpo si calmava. Col cappuccio stretto in testa, udiva il proprio respiro amplificato, sempre più lento… e sempre più lieve. L'organismo non era più in grado di contrastare il senso di oppressione indotto dal sangue che lascia le estremità — come un equipaggio che abbandona una nave in difficoltà — per fluire verso gli organi vitali nell'estremo tentativo di mantenere le funzioni essenziali.
Una battaglia persa.
Stranamente, non avvertiva più alcun dolore. Aveva già superato quello stadio. La sensazione prevalente era di gonfiore. Intorpidimento. Fluttuazione. Iniziò a fermarsi il primo dei riflessi automatici, il battito delle palpebre, e la vista si fece confusa. L'umor acqueo tra la cornea e il cristallino stava congelando. Si voltò verso la banchisa di Milne, ormai soltanto una debole forma bianca illuminata dalla luna.
In cuor suo accettava ormai la sconfitta. In stato di semincoscienza, fissò le onde in lontananza. Il vento ululava intorno a lui.
Fu allora che cominciò l'allucinazione. Negli ultimi secondi prima di perdere i sensi non gli si presentò l'immagine dei soccorsi, non provò sensazioni di calore né di conforto. La sua ultima illusione fu terrificante.
Un leviatano si levò dall'acqua vicino all'iceberg, rompendo la superficie con un minaccioso sibilo. Come un mitico mostro marino, snello, nero e letale, comparve tra l'acqua spumeggiante. Tolland riuscì a fatica a battere gli occhi per rischiarare la vista. La bestia era vicina e urtava contro il ghiaccio come un mastodontico squalo che colpisca a testate una barchetta. Enorme, torreggiò davanti a lui, con la pelle bagnata e lucente.
L'immagine sfocata si oscurò e restarono soltanto i suoni. Metallo contro metallo. Denti che mordevano il ghiaccio. Sempre più vicini. I corpi trascinati via.
"Rachel…"
Si sentì afferrare bruscamente.
Poi, buio totale.
64
Gabrielle Ashe entrò a passo veloce nella redazione del notiziario, al terzo piano del palazzo dell'ABC. Tutti i presenti, peraltro, si muovevano più in fretta di lei. Lì l'attività era febbrile ventiquattr'ore al giorno, ma in quel momento ricordava il salone delle grida della Borsa. I redattori in preda all'agitazione si urlavano a vicenda dalle loro postazioni, i cronisti brandivano fax e passavano da una scrivania all'altra raffrontando le note, mentre frenetici praticanti mandavano giù Snickers e Mountain Dew tra una corsa e l'altra.
Gabrielle era andata alla ABC per parlare con Yolanda Cole.
Di solito la si trovava nei quartieri alti della produzione, negli uffici chiusi da vetrate riservati a chi deve prendere decisioni importanti e ha bisogno di quiete per riflettere. Quella sera, invece, anche Yolanda era nel salone, nel mezzo della calca. Quando vide Gabrielle, la salutò con la consueta esuberanza.
«Gabs!» Indossava un ampio abito di batik e occhiali di tartaruga. Come al solito esibiva chili di bigiotteria appariscente. Avanzò ancheggiando, sbracciandosi. «Un bacio!»
Da sedici anni Yolanda Cole era l'appagata caporedattrice del telegiornale della ABC nella sede di Washington. Polacca, viso lentigginoso, corpulenta e con pochi capelli, veniva chiamata affettuosamente "la mamma". La presenza matronale e il buonumore mascheravano la smaliziata grinta con cui si avventava sulle notizie. Gabrielle l'aveva conosciuta al seminario sulle donne in politica che aveva frequentato per qualche tempo subito dopo il suo arrivo a Washington. Avevano parlato della formazione di Gabrielle, della difficoltà di essere donna a Washington e infine avevano scoperto una passione comune per Elvis Presley. Yolanda l'aveva presa sotto l'ala e introdotta tra i suoi conoscenti, e lei almeno una volta al mese passava a salutarla.
Gabrielle abbracciò l'amica con calore, già contagiata dal suo entusiasmo.
Yolanda fece un passo indietro per osservarla. «Ehi, ragazza, sembri invecchiata di cent'anni! Che ti è successo?»
Gabrielle abbassò la voce. «Sono nei casini.»
«Non è quello che si dice in giro. Pare che il tuo uomo sia in rimonta.»
«Possiamo parlare in privato da qualche parte?»
«È un brutto momento, tesoro. Il presidente farà una conferenza stampa tra mezz'ora, e non abbiamo la più pallida idea dell'argomento. Devo preparare un commento ragionato, ma volo alla cieca.»
«Io so di che cosa parlerà.»