Читаем Le sabbie di Marte полностью

Molti rumori echeggiavano per l’Ares, la notte, poiché l’astronave era viva, e il silenzio avrebbe significato per lei e per tutti coloro che ci vivevano la morte e il nulla, e quei rumori Gibson li conosceva tutti, ormai. Era meravigliosamente rassicurante il sospiro continuo, regolare delle pompe dell’aria che insufflavano gli alisei artificiali, creati dall’uomo, per quel minuscolo pianeta.

Ancora semiaddormentato, si affacciò sull’uscio della cabina e per qualche minuto rimase in ascolto nel corridoio. Tutto era perfettamente normale, e lui era l’unico sveglio a bordo.

Si era già rimesso a letto quando lo assalì un pensiero improvviso. Il rumore era stato poi così lontano? La sua era stata soltanto una prima impressione, e il rumore avrebbe anche potuto essere molto più vicino. Ma era stanco e non ci pensò più. Gibson nutriva una fiducia completa, addirittura commovente, nella perfetta strumentazione dell’astronave. Se davvero fosse successo qualcosa, gli allarmi automatici avrebbero svegliato tutti. Erano stati collaudati parecchie volte nel corso del viaggio, ed erano talmente assordanti da svegliare anche un morto. Quindi poteva riaddormentarsi tranquillamente, sicuro che la nave vegliava su di lui.

Gibson aveva perfettamente ragione, anche se era destinato a non saperlo mai. Il mattino seguente, del resto, aveva già dimenticato ogni cosa.

Norden si avvicinò tossicchiando nervosamente.

«Senti un po’, Martin» disse il capitano, «ti ricordi che non mi lasciavi in pace perché volevi provare una tuta spaziale?»

«Certo. Ma mi hai sempre risposto che era severamente proibito dai regolamenti.»

Il Comandante parve imbarazzato, cosa alquanto insolita in lui.

«Già, e infatti lo è, in un certo senso. Ma questa volta non si tratta di un viaggio normale, e da un punto di vista tecnico tu non puoi essere definito un passeggero. Credo che dopotutto si possa fare, se t’interessa ancora.»

Gibson ne fu entusiasta. Si era sempre chiesto che effetto facesse indossare una tuta spaziale e starsene in piedi nel nulla, circondati dalle stelle. Non gli venne neppure in mente di chiedere a Norden come mai avesse cambiato idea, cosa di cui Norden gli fu molto grato.

La congiura era andata maturando durante un’intera settimana. Ogni mattina Hilton si recava nella cabina di Norden con i bollettini di navigazione in cui erano riassunti l’andamento della nave durante le ultime ventiquattro ore e il comportamento delle sue molteplici macchine. Di solito non c’era niente d’importante da segnalare, e dopo aver firmato i vari rapporti, Norden li univa al giornale di bordo. Una grana era davvero l’ultima cosa che avrebbe desiderato lassù nello spazio, ma gliene toccò una.

«Senti un po’, Johnnie» disse Hilton una mattina (era il solo a bordo che chiamasse Norden con il nome di battesimo: per gli altri era sempre e soltanto il Comandante) «non ho più dubbi ormai sulla pressione d’aria. La diminuzione si può dire costante. Tra una decina di giorni avremo superato il limite di tolleranza.»

«Questo significa che dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Speravo che fosse possibile resistere fino all’arrivo.»

«Temo invece che non sarà possibile. Naturalmente si tratta di livelli trascurabili: una fuga d’aria anche dieci volte maggiore non sarebbe in realtà pericolosa. Ma quando torneremo sulla Terra dovremo pur consegnare alla commissione per la sicurezza spaziale i nostri rapporti sulla pressione.»

«Dove pensi che avvenga la perdita?»

«Nell’ossatura, naturalmente.»

«Si tratta forse di quella vecchia apertura vicino al Polo Nord

«Ne dubito. È stato troppo improvviso. Temo che sia una foratura nuova.»

Norden ebbe un’espressione seccata. Di forature dovute a polvere meteorica se ne verificavano due o tre all’anno su un’astronave della mole dell’Ares. Di solito si lasciava che si accumulassero prima di pensare a ripararle, ma questa sembrava un po’ troppo rilevante per venire ignorata.

«Questo è il guaio» disse Hilton. «Abbiamo un solo rivelatore, e ben cinquantamila metri quadrati di ossatura da ispezionare. Si possono perdere anche un paio di giorni. Ora, se si fosse trattato di un unico bel buco grosso avremmo potuto mettere in azione le paratie automatiche che ce l’avrebbero individuato subito.»

«Meno male che questo non è possibile» disse Norden ridendo. «Altrimenti una spiegazione qualsiasi avremmo dovuto pur darla!»

Jimmy Spencer, al quale come al solito venne affibbiato anche quell’incarico di cui nessuno si voleva occupare, trovò il guasto dopo tre giorni e dodici giri d’ispezione. Il minutissimo foro era appena visibile ad occhio nudo, ma il rivelatore supersensibile aveva immediatamente registrato che in quella parte dello scafo il vuoto non era a tenuta perfetta. Jimmy aveva segnato il punto col gesso ed era rientrato tutto soddisfatto nel compartimento stagno.

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