Telefonai. Squillò e squillò e squillò. Alla fine Bob Larking sollevò la cornetta. Frocio, senza dubbio, una dolce voce tenorile con il suo bravo accento bleso, per niente diverso dalla voce di Teddy-al-lavoro. Chi ha insegnato a questa gente a parlare con un accento di omosessuali? Chiesi: — C’è Toni? — Una risposta circospetta: — Chi è all’apparecchio per favore? — Glielo dissi. Lui mi chiese di aspettare, e passò un minuto o giù di lì a confabulare con lei, la mano sulla cornetta. Alla fine ritornò e disse che Toni c’era, sì, però era molto stanca e stava riposando e non aveva nessuna voglia di parlare con me proprio adesso. — È urgente — dissi io. — Per favore ditele che è urgente. — Altra consultazione, in sordina. Stessa risposta. Lui suggeriva, tra i denti, che io richiamassi fra due o tre giorni. Mi misi a lusingare, a piagnucolare, a supplicare. Nel bel mezzo di questa antieroica scena, il telefono passò bruscamente in altre mani e Toni mi disse: — Perché hai telefonato?
— Questo dovrebbe essere ovvio. Ho bisogno che tu ritorni.
— Non posso.
Lei non disse:
Io dissi: — Ti dispiacerebbe dirmi il perché?
— Niente da fare.
— Non hai lasciato neanche un appunto. Neanche una parola di spiegazione. Sei scappata fuori e basta.
— Mi spiace, David.
— È stato qualcosa che hai visto in me mentre eri in viaggio, non è così?
— Non parliamone — disse lei. — È acqua passata.
— Per me non è acqua passata.
— Per me sì.
Era quasi mezzanotte. L’aria estiva mi si appiccicava addosso ed era viscida, con un accenno di pioggia. Non si vedevano stelle. Mi affrettai per il centro, soffocato dai vapori umidi della city e dal veleno del mio amore andato in frantumi. L’appartamento di Larkin era al 19° piano di una nuova immensa torre a terrazze, in mattoni bianchi, molto in alto in York Avenue. Aprendomi la porta, lui mi scoccò un tenero sorriso, pieno di compassione, quasi a dire: povero bastardo, sei pieno di ferite e stai ancora sanguinando, e adesso vieni qui per fartele riaprire. Aveva circa trent’anni, un uomo tracagnotto, con una faccia da bambino, lunghi capelli disordinatamente riccioluti e grandi denti irregolari. Irradiava calore, simpatia e gentilezza. Potevo capire perché Toni era corsa da lui in un momento come quello. — Lei è nel soggiorno — disse. — A sinistra.
Era un posto ampio, impeccabile, un pochino stravagante nell’arredamento, con linee frastagliate di colore che danzavano sulle pareti, manufatti precolombiani in vetrinette, in evidenza, illuminati da riflettori, bizzarre maschere africane, mobili in acciaio cromato, il tipo di arredamento improbabile che si vede nella sezione arredamento del numero domenicale del
Il centro dello show era il soggiorno, una vasta stanza con le pareti tinteggiate in bianco e una lunga finestra ricurva che rivelava tutti gli splendori di Queens attraverso l’East River. Toni sedeva all’estremità opposta, accanto alla finestra, su un divano ad angolo, azzurro cupo con riflessi oro. Indossava abiti vecchi, trasandati, che urtavano con lo splendore che la circondava: una giacchetta rossa antiquata che io detestavo, una gonna corta, scura, sciatta, calze nere… ed era buttata lì, risentita, sulla schiena, appoggiata a un gomito, le gambe che sporgevano goffamente. Una posizione che la faceva sembrare ossuta e sgraziata. Una sigaretta che le pendeva tra le dita, e nel portacenere accanto a lei un’enorme pila di cicche. Gli occhi erano tristi. I suoi lunghi capelli arruffati. Non si mosse mentre io andavo verso di lei. Da lei proveniva un’aura di ostilità che mi bloccò a cinque o sei metri di distanza.
— Dov’è la roba che eri venuto a portarmi? — chiese.