In basso, tutto è tranquillo. La città intera dorme, a parte quelli che devono essere svegli a quell’ora per lavorare; i mongoli non soffrono d’insonnia. Mordecai sì; ma d’altronde, Mordecai non è un mongolo. È un nero, la pelle scura come quella degli africani, pur non essendo nemmeno africano; slanciato, le gambe lunghe, alto — si avvicina ai due metri — con i capelli densi e increspati, occhi grandi, labbra piene, un naso largo ma non schiacciato. In questa terra di gente robusta, dalla pelle dorata, il naso affilato e la capigliatura liscia, lucida, il dottor Mordecai è una figura che dà nell’occhio: forse più di quanto lui stesso non preferirebbe.
Si accuccia, scatta in piedi, si accuccia, scatta, piegando le braccia e tendendole, dentro e fuori, dentro e fuori. Si lancia ogni mattino in un rituale di esercizio fisico sul balcone, nudo nell’aria gelata: ha trentasei anni, e sebbene il suo ruolo nel governo gli garantisca l’accesso all’Antidoto di Roncevic, sebbene gli sia così risparmiata la paura della decomposizione organica che ossessiona la maggior parte dei due miliardi di persone che abitano il pianeta, trentasei anni è comunque un’età in cui è opportuno prendere misure coscienziose per proteggere il corpo dai normali malanni che il tempo porta.
Fino a quando, ansimando, sudando, rabbrividendo, sentendosi vivo e aperto e ricettivo, imperturbato dall’imminente operazione chirurgica, Mordecai decide che ha fatto ginnastica a sufficienza. Si lava, si veste, preme un tasto per far preparare la solita colazione leggera, si dispone a svolgere la sua routine di compiti mattutini.
Il dottore ora è pronto ad affrontare Interfaccia Tre, attraverso cui ogni giorno entra nella suite residenziale del suo signore, il Khan. È un’imponente soglia romboidale, alta due metri e mezzo. Dalla sua superficie bronzea, liscia come seta, emergono come verruche una quindicina di proboscidi cilindriche, alte tra i tre e i nove centimetri. Alcune sono rilevatori e sensori, altre sono terminali audio, altre ancora sono armi letali e implacabili; e Shadrach non ha idea di quali siano l’una o l’altra cosa. Con ogni probabilità, quel che è oggi un rilevatore sarà domani un cannone laser; è con simili casuali rotazioni di funzione che Gengis Mao riesce a confondere gli assassini senza volto che teme tanto.
— Shadrach Mordecai, per servire il Khan — dice Mordecai con voce ferma e chiara in quello che spera sia il microfono di oggi.
Interfaccia Tre, che ora emette un debole ronzio, sottopone l’annuncio di Mordecai all’analisi delle impronte vocali. Contemporaneamente, una macchina controlla il corpo di Mordecai, ne esamina l’equilibrio termico, la massa, la tensione posturale, il tessuto olfattivo e molte altre cose. Se un qualunque valore dovesse cadere al di fuori dei parametri relativi al Mordecai conosciuto, il medico si troverebbe avvolto da getti rapidissimi di schiuma immobilizzante, in attesa dell’arrivo delle guardie chiamate ad accertare la situazione; opporre resistenza in quel frangente potrebbe portare alla sua ditruzione immediata. Cinque di queste interfacce proteggono i cinque ingressi delle stanze del Presidente Gengis Mao, e sono le porte più ingegnose mai progettate. Lo stesso Dedalo non avrebbe mai potuto fabbricare barriere più astute a protezione del Minotauro.