Col trascorrere dei secondi, fu costretto ad ammettere l’inevitabile verità. Se fosse rimasto lì, in attesa che l’altro lo trovasse, sarebbe morto prima del mattino. Respinse diverse volte l’idea di lanciarsi all’attacco di Gwynne, ma l’idea tornava di continuo, con un’insistenza sottile che gli parve quasi più minacciosa del laser. Alla fine alzò la testa dal metallo e scoprì che riusciva vagamente a intravvedere, attraverso il soffitto, il cielo. Si guardò attorno. Dal tetto trasparente emanava un chiarore verdastro, il riflesso della luce dei lampioni, di cui prima non si era accorto perché non si era ancora abituato al buio. Poco per volta distinse le forme vaghe di macchinari e contenitori, uniti dai fantasmi di passerelle, corrimano e tubi a zigzag. Forse nei contenitori c’era qualcosa che poteva servirgli come arma.
Aspettò che sotto si accendesse un’altra volta la luce. Il raggio era più vicino di prima, ma la luminosità riflessa gli servì per guardare nel contenitore che si trovava a pochi centimetri dal suo fianco. Era profondo un paio di metri e pieno fino a metà di quelle che sembravano sfere grosse come un pugno. Quando la torcia di Gwynne si spense, Carewe continuò a vedere le sfere: scintillavano debolmente, come stelle lontane. Per un attimo rimase sconcertato, poi gli tornò in mente qualcosa che gli aveva detto Gwynne: “…Una fabbrichetta di Idaho Falls, la Cuscinetti Antiattrito…”. Cuscinetti. Ma allora si trattava di sfere di metallo!
Leggermente più fiducioso, ma sempre cauto, strisciò verso l’orlo del contenitore. Una sfera grande come un’arancia poteva essere un’arma di tutto rispetto. Afferrò con la sinistra il corrimano e si curvò sul contenitore, finché non arrivò a toccare le sfere fredde. Chiuse le dita attorno a una sfera, ma quella schizzò subito via. Riprovò, cercando di stringere più forte, e la sfera volò via come prima, andando a colpire le altre con una serie di rumori metallici. Immediatamente, sotto di lui si accese la torcia elettrica, illuminando di una luce livida il corrimano.
Carewe capì di aver commesso un errore spaventoso.
Quelle che lui pensava di usare come armi non erano semplici sfere d’acciaio. Il cuscinetto tradizionale era scomparso da decenni. Quelle sfere, composte di molecole polarizzate radialmente, non possedevano praticamente indice di attrito. A meno di non tenerle ferme lateralmente, era impossibile sottoporle a qualsiasi pressione: schizzavano via a razzo. Costituivano un’invenzione superba dal punto di vista tecnologico, ma erano del tutto inutilizzabili come proiettili. E lui non aveva nient’altro a disposizione.
Trattenendo il respiro, Carewe infilò le dita sotto un’altra sfera, le unì a grappolo e le spostò verso l’alto. Quando la mano gli arrivò all’altezza della faccia, fu costretto a bilanciarsi sui due piedi. La sfera schizzò via, come una creatura vivente che volesse riunirsi ai suoi simili, e precipitò nel contenitore. Il raggio scarlatto del laser colpì il corrimano, e la schiena di Carewe fu investita da una pioggia di goccioline di metallo fuso. Lui strinse i denti e ritentò. Questa volta, muovendo continuamente la mano, riuscì a tirare fuori la sfera, proprio mentre Gwynne appariva in cima alle scale. Carewe spostò la mano di lato; poi mugolò di disperazione quando la sfera gli sfuggì dalle dita e si mise a rotolare lungo la passerella.
Colto di sorpresa, Gwynne puntò la torcia sulla sfera che correva verso di lui, accelerando. Carewe si lanciò in avanti. Fu accecato per un attimo dal raggio di luce, poi andò a sbattere contro l’investigatore. Cercò di buttarlo a terra, ma l’altro lottò con tutta la forza della disperazione. Rotolarono lungo la passerella avvinghiati, Carewe si lasciò quasi sommergere dal panico, all’idea che Gwynne avesse ancora in mano la torcia. Si accorse che l’investigatore tentava di puntargli addosso l’arma, e ogni muscolo del suo corpo scattò in un’esplosione di energia incontrollata.
I due uomini precipitarono giù dalla passerella, cadendo in uno dei contenitori. Per un secondo, a Carewe sembrò di essere finito in una pozza d’acqua gelida, finché capì di trovarsi in un contenitore pieno di sfere minuscole. Assolutamente nemiche dell’attrito, le sfere offrivano ancor meno resistenza dell’acqua. Affondò immediatamente. Le sfere gli entrarono in bocca come insetti inferociti. Le sentiva sbattere contro i denti, scendere nello stomaco, lemming metallici spinti dalla gravità a cercare il punto più basso di ogni contenitore in cui si trovassero. Alle sfere non interessava affatto che, in, questo caso, i contenitori fossero i polmoni e lo stomaco di Carewe.