Se ne era perduta l’origine, e nessuno sapeva più quale studioso, in quale secolo, l’avesse salvata dall’oblio per le età a venire.
Loren aveva abbracciato Mirissa e Brant con muta solidarietà; dopo di che li aveva lasciati con la famiglia Leonidas e con i numerosi parenti giunti dalle altre due isole. Non aveva voglia di conoscerli, perché sapeva ciò che molti di loro dicevano dentro di sé: «Lui ti ha salvato, ma tu non hai potuto far nulla per Kumar». Era un fardello che Loren avrebbe dovuto portare per la vita intera.
Si morse le labbra per trattenere le lacrime — un alto ufficiale della più grande nave interstellare mai esistita non poteva mettersi a piangere — e in quel momento uno dei meccanismi di difesa della mente venne in suo soccorso. Nei momenti di grande dolore, certe volte il solo modo per non perdere il controllo di sé è di richiamare alla memoria qualche immagine del tutto incongrua, e anche comica.
Sì, l’universo ha un ben strano senso dell’umorismo. Loren dovette farsi forza per non sorridere; come sarebbe piaciuto a Kumar l’ultimo scherzo che il destino gli aveva giocato!
«Non si sorprenda» gli aveva detto l’ufficiale medico Newton aprendo la porta dell’obitorio. Una ventata di aria gelida che sapeva di formalina li investì entrambi. «Succede più spesso di quanto non creda. Certe volte è un ultimo spasimo… quasi un tentativo inconsapevole di sfidare la Morte.
In questo caso è stato probabilmente provocato dalla diminuzione di pressione e dal successivo congelamento.»
Se non fosse stato per i cristalli di ghiaccio che facevano risaltare i muscoli di quello splendido e giovane corpo, Kumar poteva sembrare addormentato, non solo, ma perso in qualche sogno meraviglioso.
Perché nella morte il Piccolo Leone appariva ancora più maschio che in vita.
E ora il sole era calato dietro le basse colline a ovest, e la fresca brezza della sera si alzava dal mare. Quasi senza un’increspatura, il kaiak scivolò nell’acqua spinto da Brant e da tre amici intimi del defunto. Per l’ultima volta Loren guardò il volto sereno del ragazzo cui doveva la vita.
Vi erano state poche lacrime fino a quel momento, ma mentre il kaiak si allontanava lentamente dalla riva, un gran coro di lamenti sorse dalla folla che s’era radunata sulla spiaggia. Ora Loren non riuscì più a trattenere le lacrime, e nemmeno gli importava che lo vedessero piangere.
Spinto dai quattro che ora nuotavano, il kaiak puntò dritto verso la barriera sottomarina. La rapida notte thalassana già scendeva quando il kaiak passò tra le due boe luminose che segnavano l’apertura che immetteva nel mare aperto. Per un attimo l’imbarcazione fu nascosta alla vista dalla schiuma delle onde che battevano contro la barriera.
Il lamento cessò. Tutti aspettavano. Quindi vi fu un improvviso lampo di luce contro il cielo già scuro, e una colonna di fuoco sorse dal mare.
Bruciò chiara e vigorosa, senza quasi far fumo; per quanto tempo, Loren non seppe mai bene, perché il tempo aveva cessato di esistere per Tarna.
Poi, di colpo, la fiamma si abbassò e la colonna di fuoco s’inabissò nel mare. Tutto fu buio; ma per un momento soltanto.
Là dove fuoco e acqua s’incontrarono, una fontana di scintille sprizzò verso il cielo. Quasi tutte ricaddero in mare, ma qualcuna continuò a salire fino a scomparire alla vista.
E così, per la seconda volta, Kumar Leonidas salì verso le stelle.
VIII. VOCI DI TERRA LONTANA
50. Scudo di ghiaccio
La messa in opera dell’ultimo fiocco di neve sarebbe dovuta essere un’occasione di gioia; e invece lo stato d’animo era solo di pacata soddisfazione. Trentamila chilometri sopra Thalassa, l’ultimo esagono di ghiaccio venne assemblato, e lo scudo fu completo.
Per la prima volta in quasi due anni venne acceso il motore quantico, alla potenza minima. La