Non era la prima volta che vedeva i prodotti dell’alta tecnologia; la centrale a fusione e il Replicatore Principale sull’Isola Settentrionale erano molto più grandi e anche più impressionanti. Ma quel labirinto violentemente illuminato di tubi e serbatoi e gru e meccanismi di sollevamento — quell’operoso panorama, tra il cantiere navale e lo stabilimento chimico, che funzionava in silenzio sotto le stelle senza che vi fosse un solo essere umano in vista, colpiva a livello sia visivo sia psicologico.
Kumar gettò l’àncora con un tonfo improvviso che risuonò nel gran silenzio della notte.
«Vieni» le disse con malizia. «Voglio farti vedere una cosa.»
«Ma c’è pericolo?»
«Naturalmente no. Ci sono già stato decine di volte.»
E non da solo, certo, pensò Carina. Ma Kumar era già entrato in acqua prima che lei potesse dire qualcosa.
L’acqua arrivava al petto, e conservava a tal punto il calore del giorno da riuscire quasi fin troppo calda. Quando Carina e Kumar si avviarono verso la spiaggia, la mano nella mano, fu un sollievo sentire sul corpo l’aria fresca della notte. Uscirono dalle onde come moderni Adamo ed Eva cui fossero state date le chiavi di un Eden meccanizzato.
«Non ti preoccupare» disse Kumar. «Conosco bene questo posto. Il dottor Lorenson mi ha spiegato tutto. Ma io ho trovato una cosa che lui di sicuro non conosce.»
Si avviarono seguendo certi tubi avvolti da uno spesso strato isolante tenuti sollevati un metro da terra, e solo ora, per la prima volta, Carina sentì un suono: il pulsare delle pompe che spingevano il fluido refrigerante attraverso il labirinto di tubi e di scambiatori di calore che li circondavano.
A un certo punto giunsero alla famosa vasca in cui era stato trovato lo scorpione di mare. L’acqua era quasi invisibile, coperta com’era dall’intrico della vegetazione marina. Su Thalassa non esistevano rettili, ma le alghe spesse e flessibili fecero venire in mente a Carina un groviglio di serpenti.
Passarono accanto a una serie di condotti di scolo e di saracinesche — in quel momento tutte chiuse — e infine arrivarono a un ampio spiazzo lontano dagli impianti. Fu a questo punto che Kumar fece un gesto di saluto verso l’obiettivo di una telecamera puntata verso di loro. Nessuno riuscì a scoprire, in seguito, perché fosse disattivata proprio nel momento cruciale.
«Queste sono le vasche di congelamento» spiegò Kumar. «Tengono seicento tonnellate, il novantacinque per cento d’acqua e il cinque per cento di alghe. Che c’è di così divertente?»
«Non è divertente… è solo
«No» disse Kumar sottovoce. «Guarda…»
In un primo momento Carina non capì cosa Kumar stesse indicando. Poi la sua mente interpretò l’immagine che palpitava all’estremo limite della sua capacità di visione, e allora capì.
Era un miracolo antico, naturalmente. Gli uomini avevano fatto la stessa cosa su molti mondi per più di mille anni. Ma vederlo con i propri occhi era più che emozionante — metteva paura.
Ora, vicino all’ultima vasca, lo poteva vedere meglio. Il sottile filo luminoso — non era largo più di due centimetri — saliva verso le stelle dritto come un raggio laser. Carina lo seguì con gli occhi fin quando si fece così sottile da risultare invisibile, lasciandola incerta sul punto esatto in cui scompariva. Ma lo sguardo non si fermava e continuava a salire vertiginoso, finché si trovò con gli occhi fissi su una stella vivida e solitaria allo zenit, immobile, mentre le altre stelle quelle vere, procedevano lente verso ovest. Come un ragno cosmico, la
Ora, saliti sul lastrone di ghiaccio che attendeva di venir issato fino alla nave, Carina ebbe un’altra sorpresa. Il lastrone era tutto ricoperto di una lucente pellicola dorata che le ricordava i regali che le facevano al suo compleanno o per la festa del Primo Atterraggio.
«Questione d’isolamento» spiegò Kumar. «Oro vero, ma spesso solo quanto due atomi. Senza l’isolante, metà del ghiaccio si scioglierebbe durante il tragitto.»
Isolante o no, Carina sentì il morso del gelo sui piedi nudi quando Kumar la condusse verso il centro del lastrone. Lì, in mezzo, scintillante di un bizzarro luccicore metallico, vi era il cavo in tensione che saliva, se non fino alle stelle, per trentamila chilometri fino all’orbita stazionaria dove si era collocata la
Il cavo terminava con un cilindro metallico zeppo di strumenti e di jet di controllo, che evidentemente fungeva da gancio — un gancio mobile e intelligente — che si saldava da sé al suo carico dopo la lunga discesa attraverso l’atmosfera. Tutto l’impianto aveva un’aria semplicissima e perfino primitiva, un’aria del tutto ingannevole, come spesso avviene con i prodotti delle tecnologie più avanzate.