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Forse privarsi della possibilità di scelta non era la cosa peggiore del mondo. Forse la vera cosa peggiore del mondo era sentirsi così come mi sentivo io.

Ma avevo già visto tutte le ragazze da La Push alla riserva di Makah e pure a Forks. Avevo bisogno di allargare il raggio d’azione.

Come si individua un’anima gemella a caso nella folla? Be’, prima di tutto avevo bisogno di una folla. Perciò mi guardai attorno in cerca di un posto adatto. Intravidi un paio di centri commerciali, forse i luoghi più appropriati per imbattermi nelle mie coetanee, ma non riuscii a fermarmi. Davvero volevo l’imprinting con una ragazza che passa tutto il giorno in un centro commerciale?

Proseguii verso nord e la popolazione aumentava sempre più. Alla fine trovai un grande parco popolato di bambini e famiglie, skateboard e biciclette, aquiloni e picnic e tutto il resto. Fino a quel momento non l’avevo notato, ma era una bella giornata. Con il sole eccetera. La gente era uscita a godersi il cielo azzurro.

Parcheggiai in mezzo a due posti per disabili — non chiedevo altro che una multa — e mi unii alla folla.

Camminai per ore, o almeno così mi sembrò. Abbastanza perché il sole si spostasse da un lato all’altro del cielo. Guardai fisso ogni ragazza che mi passava accanto, concentrato, notando chi era carina, chi aveva gli occhi blu, chi stava bene con l’apparecchio e chi si era truccata troppo. M’impegnai a trovare qualcosa d’interessante in ciascun volto, per essere davvero certo di averci provato. Cose del tipo: questa ha il naso bello dritto; quest’altra dovrebbe togliersi i capelli dagli occhi; questa potrebbe fare la pubblicità dei rossetti, se solo avesse il viso bello come le labbra...

A volte anche loro mi guardavano. Altre sembravano spaventate come se pensassero: Chi è questo enorme pazzoide che mi fissa? Talvolta parevano attratte da me, ma forse era solo il mio ego che andava a briglia sciolta.

In ogni caso, niente. Neanche quando incrociai gli occhi della ragazza più sexy — non c’era proprio storia — di tutto il parco, e forse della città, e lei contraccambiò con uno sguardo curioso che sembrava interessato, non sentii niente. A parte l’impulso disperato di trovare un modo per non soffrire più.

Più passava il tempo, più iniziai a notare tutto ciò che non dovevo. E che aveva a che fare con Bella. Questa ha i capelli del suo stesso colore. Gli occhi di questa hanno la stessa forma. Gli zigomi di quest’altra le tagliano il viso nello stesso modo. Questa ha la stessa piccola increspatura fra gli occhi, dettaglio che mi fece pensare al motivo della sua preoccupazione.

In quel momento lasciai perdere. Era molto peggio che stupido pensare di aver scelto esattamente il posto e il momento giusto per imbattermi nell’anima gemella soltanto perché ne avevo un bisogno disperato.

E poi non era logico che la trovassi là. Se la teoria di Sam era giusta, il luogo migliore per incappare nella mia metà genetica era La Push. Ma ovviamente nessuna, laggiù, rispondeva ai requisiti. Chissà, forse aveva ragione Billy. Cosa occorreva per creare un lupo più forte?

Mi trascinai verso l’auto e mi appoggiai al cofano giochicchiando con le chiavi.

Forse ero ciò che anche Leah pensava di essere. Una specie di vicolo cieco che non poteva e non doveva procreare. O forse la mia vita era semplicemente una lunga e crudele barzelletta, di cui qualcuno, prima o poi, avrebbe pronunciato la battuta conclusiva.

«Ehi, tu, tutto bene? Ehi? Tu, con la macchina rubata».

Mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che quella voce era rivolta a me e un altro secondo per decidermi ad alzare la testa.

Una ragazza dall’aspetto familiare mi guardava con un’espressione un po’ ansiosa. Capii subito perché mi sembrava di riconoscerla: l’avevo già catalogata. Capelli lisci biondo rossiccio, pelle chiara con qualche lentiggine dorata sparsa fra le guance e il naso e occhi color cannella.

«Se ti senti così in colpa per aver rubato la macchina», disse, e assieme al sorriso le spuntò una fossetta sul mento, «puoi sempre confessare».

«È in prestito, non l’ho rubata», scattai. La mia voce suonò orribile, come se avessi pianto o qualcosa del genere. Imbarazzante.

«Come no! Ti crederanno tutti in tribunale».

La guardai torvo. «Ti serve qualcosa, scusa?».

«Veramente no. Dai, scherzavo sulla macchina. È solo che... hai un’aria davvero sconvolta. A proposito, ciao, mi chiamo Lizzie». Mi porse la mano.

La guardai finché non l’abbassò.

«Comunque...», disse lei a disagio, «mi chiedevo se posso aiutarti. Prima sembrava che stessi cercando qualcuno». Indicò il parco con un gesto e scrollò le spalle.

«Già».

Lei attese.

Sospirai. «Non mi serve aiuto. Lei non c’è».

«Ah. Mi dispiace».

«Anche a me», borbottai.

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