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«Ti vuole bene», mormorò Edward, sbalordito. «Ti adora indiscutibilmente».

In quel momento capii che ero solo. Completamente solo.

Avrei voluto prendermi a calci, quando mi resi conto di aver confidato troppo in quel vampiro schifoso. Che stupido. Come se ci si potesse mai fidare di una sanguisuga! Era scritto che alla fine mi avrebbe tradito.

Avevo sperato che fosse dalla mia parte. Avevo sperato che soffrisse più di quanto avevo sofferto io. E, soprattutto, avevo confidato che odiasse quella cosa rivoltante che stava ammazzando Bella più di quanto non la odiassi io.

Gli avevo dato la mia fiducia.

Eppure ora erano insieme, loro due, chini su quell’invisibile mostro in erba, gli occhi luccicanti come una famiglia felice.

Mentre io me ne rimanevo da solo con il mio astio e un dolore talmente forte da somigliare a una tortura. Come se mi trascinassero lentamente sopra un letto di lamette. Un dolore tanto forte che accoglieresti la morte con un sorriso, pur di liberartene.

Il calore sciolse i miei muscoli bloccati e mi alzai in piedi.

Di colpo le loro tre teste si sollevarono e vidi il mio dolore propagarsi attraverso il volto di Edward mentre ancora una volta s’insinuava nella mia mente.

«Ah», ansimò.

Non sapevo che fare; restai lì, tremante, pronto a prendere la prima via di fuga a disposizione.

Come un serpente all’attacco, Edward balzò fino a un tavolino e strappò qualcosa dal cassetto. Me lo lanciò; lo presi al volo.

«Vai, Jacob. Vai via da qui». Non lo disse con durezza, anzi, mi gettò le parole quasi come un salvagente. Mi stava aiutando a trovare la via di fuga che cercavo disperatamente.

L’oggetto nella mia mano erano le chiavi di un’auto.

17

A chi somiglio? Al Mago di Oz? Serve un cervello? Serve un cuore? Fai pure. Prendi il mio. Prendi tutto ciò che ho

Corsi al garage dei Cullen mentre nella testa mi ronzava una specie di piano. La seconda parte consisteva nel ridurre in un rottame la macchina dei succhiasangue, al ritorno.

Rimasi un po’ perplesso quando schiacciai il pulsante del telecomando e non vidi lampeggiare la Volvo, ma un’altra auto: uno schianto persino in confronto alla lunga serie di veicoli di famiglia, tutti da bava alla bocca. Voleva davvero darmi le chiavi di una Aston Martin Vanquish, o si era sbagliato?

Decisi che era meglio non ragionarci troppo, altrimenti rischiavo di cambiare la seconda parte del piano. Mi buttai sul sedile di pelle liscia come seta e misi in moto, le ginocchia schiacciate sotto il volante. Normalmente mi sarei messo a piangere sentendo le fusa di quel motore, ma al momento cercavo solo di concentrarmi per inserire la marcia.

Trovai la sicura del sedile e lo spinsi tutto indietro mentre il piede affondava sull’acceleratore. L’auto si lanciò in avanti neanche fosse un aereo.

Ci vollero pochi secondi per sfrecciare lungo il vialetto tortuoso. L’auto rispondeva come se la guidassi con il pensiero e non manualmente. Quando sbucai dal tunnel verde e imboccai l’autostrada, ebbi una fugace visione del muso grigio di Leah, che scrutava inquieta fra le felci.

Per mezzo secondo mi chiesi a cosa pensasse, poi mi resi conto che non m’interessava.

Svoltai verso sud; non ero disposto a sopportare traghetti, traffico o una qualsiasi cosa che mi costringesse a togliere il piede dall’acceleratore.

Visto da una prospettiva malata, era il mio giorno fortunato. Se "fortuna" significa prendere a trecento all’ora un’autostrada trafficata senza vedere neanche uno sbirro, nemmeno nelle città con il limite a cinquanta. Che delusione. Un bell’inseguimento ci sarebbe stato bene, senza contare che la targa avrebbe fatto passare qualche guaio alla sanguisuga. Certo, alla fine l’avrebbe trovato, il modo per cavarsela, ma almeno sarebbe stato un piccolo inconveniente.

L’unico segnale di controllo in cui m’imbattei fu una chiazza di pelo marrone scuro che baluginava nel bosco e correva parallela a me per qualche chilometro lungo il confine meridionale di Forks. Sembrava Quil. Doveva avermi visto, perché scomparve dopo un minuto senza dare allarmi. Di nuovo, mi chiesi cosa pensasse di me, prima di ricordarmi che non m’importava.

Corsi per la lunga autostrada a forma di U, diretto verso la città più grande che potevo trovare. Questa era la prima parte del piano.

Il viaggio sembrò durare una vita, forse perché strisciavo ancora sulle lamette, ma in realtà dopo meno di due ore ero già più a nord, nel cuore della zona urbana indefinita che era un po’ Tacoma e un po’ Seattle. A quel punto rallentai: non avevo intenzione di uccidere un passante innocente.

Era un piano stupido. Non avrebbe funzionato. Ma, mentre mi spremevo la testa in tutti i modi per cercare di scacciare il dolore, erano rispuntate le parole di Leah.

Dimenticheresti tutto, con l’imprinting. Non soffriresti più a causa sua.

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