Mentre attraversavo la foresta che si rabbuiava, riflettei sul mio ultimo viaggio a Seattle. Forse avevo capito qual era lo scopo di Alice nel mandarmi alla centrale dello spaccio in quel posto decrepito, sede degli appuntamenti di J. Jenks con i suoi clienti più loschi. Se fossi andata in uno degli altri uffici più formali, avrei mai capito cosa dovevo chiedergli? Se l’avessi conosciuto come Jason Jenks o Jason Scott, avvocato con tutti i crismi, avrei mai stanato J. Jenks, fornitore di documenti falsi? Dovevo percorrere la strada per cui fosse evidente che stavo combinando qualcosa di grosso. Era quello il mio indizio.
Faceva già buio pesto quando entrai nel parcheggio del ristorante con qualche minuto di anticipo, ignorando le attenzioni degli inservienti all’ingresso. Indossai le lenti a contatto e andai ad aspettare J. dentro il ristorante. Anche se avevo fretta di risolvere al più presto quell’incombenza deprimente e tornare dalla mia famiglia, J. sembrava molto attento a non contaminarsi con le sue attività più meschine: avevo la sensazione che uno scambio nel parcheggio buio avrebbe urtato la sua sensibilità.
Entrando diedi il cognome Jenks e l’ossequioso maitre mi guidò di sopra, in una saletta privata con un fuoco che crepitava in un caminetto di pietra. Prese lo spolverino a mezza gamba color avorio che portavo per nascondere il fatto che indossavo una tenuta che Alice avrebbe trovato adatta all’occasione e restò a bocca aperta davanti al mio abito da cocktail color écru. Non riuscii a evitare di sentirmi un po’ lusingata: non ero ancora abituata a essere ritenuta bella da tutti, oltre che da Edward. Il maitre aveva balbettato mezzi complimenti mentre usciva goffo dalla stanza.
Restai in attesa vicino al fuoco, accostando le dita alla fiamma per scaldarle un po’ prima dell’inevitabile stretta di mano. Per quanto J. sospettasse sicuramente che i Cullen avessero qualcosa da nascondere, era comunque una buona abitudine da mantenere.
Per mezzo secondo mi chiesi cosa avrei provato mettendo la mano nel fuoco. Cosa avrei sentito mentre bruciavo...
L’ingresso di J. mi distolse da quei pensieri morbosi. Il maitre prese anche il suo cappotto e risultò evidente che non ero l’unica a essermi vestita elegante per quell’incontro.
«Mi scusi tanto per il ritardo», disse J. appena ci trovammo soli.
«No, è in perfetto orario».
Mi porse la mano e mentre ce la stringevamo sentivo che comunque le sue dita erano molto più calde delle mie. Ma non ne sembrava turbato.
«Se posso permettermi, la trovo splendida, signora Cullen».
«Grazie, J. Per favore, mi chiami Bella».
«Devo dire che trattare con lei è un’esperienza diversa che con il signor Jasper. È molto meno... inquietante». Fece un sorrisino vago.
«Davvero? Ho sempre trovato che la presenza di Jasper abbia un effetto calmante».
Avvicinò le sopracciglia. «Veramente?», mormorò per educazione, anche se era palese che dissentiva. Che strano. Cosa aveva mai fatto Jasper a quell’uomo?
«Conosce Jasper da molto?».
Sospirò e parve a disagio. «Lavoro con il signor Jasper da più di vent’anni, e il mio vecchio socio lo conosceva già da quindici anni... Non cambia mai». J. rabbrividì appena.
«Sì, Jasper è un po’ strano da quel punto di vista».
J. scosse il capo come se potesse scrollarsi di dosso quei pensieri fastidiosi. «Vuole sedersi, Bella?».
«A dire il vero ho un po’ fretta. La strada fino a casa è lunga». Mentre parlavo estrassi dalla borsa la spessa busta bianca con i soldi in più destinati a lui e gliela porsi.
«Oh», disse con una lieve sfumatura di delusione. S’infilò la busta in una tasca interna della giacca senza fermarsi a controllare l’importo. «Speravo che potessimo dirci due parole».
«A proposito di cosa?», domandai incuriosita.
«Be’, si faccia consegnare prima gli oggetti che mi ha chiesto. Voglio essere certo che sia soddisfatta».
Si girò, mise sul tavolo la ventiquattrore e aprì le chiusure a scatto. Ne tirò fuori una busta imbottita in formato protocollo.
Anche se non avevo idea di quello che avrei dovuto ricevere, aprii la busta e diedi un’occhiata sommaria al contenuto. J. aveva girato la foto di Jacob e ne aveva modificato i colori in modo che passaporto e patente non riportassero un’identica immagine. Che a me apparissero perfetti non importava. Per una frazione di secondo osservai la foto sul passaporto di Vanessa Wolfe e poi distolsi rapida lo sguardo, con un groppo che mi saliva in gola.
«Grazie», gli dissi.
Socchiuse un poco gli occhi e capii che il mio esame poco accurato lo aveva deluso. «Le posso assicurare che i pezzi sono perfetti. Supererebbero gli esami più rigorosi degli esperti».
«Ne sono certa. Apprezzo molto quello che ha fatto per me, J.».
«È stato un piacere, Bella. In futuro, mi contatti pure per qualsiasi cosa di cui i Cullen abbiano bisogno». Non lo diceva sul serio, ma la frase sembrava un invito esplicito a prendere il posto di Jasper come contatto.
«Voleva parlarmi di qualcosa?».