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Mi aspettavo che restassimo in aeroporto per prendere la coincidenza con il volo successivo. Invece salimmo su un taxi che ci portò fra le strade buie, affollate e piene di vita di Rio. Incapace di distinguere una parola delle istruzioni al tassista che Edward diede in portoghese, immaginai che stessimo cercando un albergo per una sosta. A quel pensiero, fui presa dall’attacco violento di qualcosa che somigliava a panico da palcoscenico. La folla che il taxi fendeva si diradò poco a poco mentre ci avvicinavamo a quello che sembrava il confine più occidentale della città, puntando dritto verso l’oceano.

Ci fermammo al porto.

Edward indicò al conducente la fila interminabile di yacht ormeggiati nell’acqua resa scura dalla notte. Lo fece fermare davanti a una barca più piccola della media, affusolata, costruita per essere più veloce che spaziosa. E tuttavia era lussuosa, più aggraziata delle altre. Vi balzò dentro con un salto agile, malgrado le valigie pesanti che portava. Le lasciò sul ponte e tornò indietro per aiutarmi a salire.

Lo guardai in silenzio, mentre si preparava a partire, sorpresa di vederlo così tranquillo e a proprio agio con la barca, perché non mi aveva mai parlato di suoi trascorsi nautici. Del resto, era bravo quasi in tutto.

Mentre puntavamo verso oriente, verso l’oceano aperto, ripassai a mente qualche nozione di geografia. Per quanto ricordavo, non c’era granché a est del Brasile... a parte l’Africa.

Ma Edward proseguì a tutta velocità in quella direzione, finché le luci di Rio non s’affievolirono fino a svanire alle nostre spalle. Sul suo volto c’era il sorriso familiare ed entusiasta che solo la velocità sapeva produrre. La barca si tuffava fra le onde spruzzandomi addosso la schiuma del mare.

Alla fine la curiosità che avevo soffocato così a lungo ebbe la meglio.

«Manca ancora molto?», domandai.

Non era da lui dimenticare che fossi umana, ma forse aveva stabilito di passare un po’ di tempo su quella piccola imbarcazione.

«Solo un’altra mezz’ora». Il suo sguardo cadde sulle mie mani, ben salde al sedile, e sorrise.

Be’, pensai fra me, tutto sommato è un vampiro. Magari mi sta portando ad Atlantide.

Venti minuti dopo, sopra al rombo del motore udii la sua voce che mi chiamava.

«Bella, guarda là». Indicò un punto davanti a sé.

Sulle prime vidi soltanto la notte e la scia bianca della luna sull’acqua. Ma perlustrai con lo sguardo nella direzione che mi aveva indicato fino a individuare una sagoma bassa e nera che spezzava la luce lunare sulle onde. Più socchiudevo gli occhi nel buio, più la sagoma diventava dettagliata. Si trasformò in un triangolo rozzo, i cui lati irregolari affioravano dalle onde. Ci avvicinammo e notai che il profilo era morbido e dondolava mosso da una brezza leggera.

Poi i miei occhi misero bene a fuoco i particolari: dall’acqua di fronte a noi spuntava un isolotto coperto da palme ondeggianti, con una spiaggia che scintillava chiara alla luce della luna.

«Dove siamo?», mormorai meravigliata mentre Edward cambiava direzione e girava attorno all’isola, verso nord.

Mi sentì malgrado il rombo del motore e si apri in un grande sorriso luminoso.

«Questa è l’Isola Esme».

La barca rallentò di colpo e si avvicinò con precisione a un piccolo molo di legno quasi bianco nella luce lunare. Quando il motore tacque, calò un silenzio profondo. Si sentivano soltanto le onde, che s’infrangevano leggere contro la barca, e il fruscio della brezza fra le palme. L’aria era afosa, umida e profumata, come la scia di vapore di una doccia calda.

«Isola Esme?». Parlavo piano, ma la mia voce risultava fin troppo chiassosa nella tranquillità della notte.

«Un regalo di Carlisle: Esme ha proposto di prestarcela».

Un regalo. Chi può scegliere un’isola come regalo? Aggrottai le sopracciglia. Non avevo capito che la generosità estrema di Edward era un tratto acquisito.

Posò le valigie sul molo e risalì sfoggiando il suo sorriso perfetto. Anziché offrirmi la mano, mi sollevò prendendomi in braccio.

«Non dovresti aspettare fino alla soglia di casa?», domandai emozionata mentre saltava agile dalla barca.

«Lo sai che sono pignolo».

Senza mollare la presa su di me, con una mano afferrò entrambe le maniglie delle grosse valigie e percorse il molo, incamminandosi lungo un sentiero di sabbia chiara che correva attraverso la scura vegetazione. Per un tratto fu buio pesto, ma a un certo punto intravidi una luce calda in lontananza. Più o meno quando capii che la luce era una casa — i due quadrati perfetti e luminosi erano ampie finestre ai lati della porta d’ingresso — ebbi un attacco di panico più impetuoso di prima, peggio di quando pensavo che la nostra meta fosse un albergo.

Il battito del mio cuore contro il torace era udibile, il mio respiro sembrava incastrato in gola. Sentivo gli occhi di Edward su di me, ma rifiutavo di incrociarli. Guardavo dritto, senza vedere nulla.

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