Fui immediatamente travolta dalla verità delle mie stesse parole. Quel momento era così perfetto, così giusto, che per nulla al mondo potevo dubitarne.
Le sue braccia mi avvolsero stringendomi a lui, estate e inverno. Era come se ogni terminazione nervosa del mio corpo sprizzasse elettricità.
«Per sempre», aggiunse Edward e mi trascinò con dolcezza verso acque più profonde.
Il sole caldo sulla mia schiena nuda mi svegliò il mattino dopo. Era tarda mattinata, forse pomeriggio. Eppure tutto, esclusa l’ora, mi era chiaro, sapevo esattamente dove mi trovavo: nella stanza luminosa con il grande letto bianco, mentre il sole risplendeva dalle porte aperte. Le nuvole del baldacchino rendevano più tenue la luce.
Non aprii gli occhi. Ero troppo felice per cambiare anche il minimo dettaglio. Gli unici suoni erano le onde, il nostro respiro, il battito del mio cuore.
Mi sentivo a mio agio persino sotto il sole cocente. La pelle fredda di Edward era l’antidoto perfetto al calore. Distesa sul suo petto ghiacciato, avvolta nelle sue braccia, mi sentivo tranquilla e spontanea. Chissà da dove era venuto il panico della sera prima. In quel momento, tutte le mie paure sembravano sciocche.
Le sue dita accarezzarono lievi il profilo della mia schiena e capii che si era accorto che ero sveglia. Restai a occhi chiusi e lo abbracciai forte.
Non parlò; le sue dita si muovevano su e giù lungo la mia schiena, quasi senza toccarla, e tracciavano disegni leggeri sulla pelle.
Mi sarebbe piaciuto restare così per sempre, senza mai modificare quell’istante, ma il mio corpo non la pensava allo stesso modo. Risi del mio stomaco impaziente. Era quasi banale avere fame dopo tutto quello che era successo la notte precedente. Come atterrare dopo un volo a grandi altezze.
«Che c’è di buffo?», mormorò Edward, senza smettere di accarezzarmi. Il suono della sua voce, seria e roca, riportò con sé un’ondata di ricordi notturni e mi sentii arrossire.
In risposta alla domanda, il mio stomaco ruggì. Non potei fare a meno di riderne. «Che più di tanto non si può fingere di non essere umani».
Restai in attesa, ma lui non rise con me. Pian piano, penetrando fra i tanti strati di beatitudine che riempivano con dolcezza il mio cuore, giunse la consapevolezza di un’atmosfera diversa, al di fuori della mia sfera luccicante di felicità.
Aprii gli occhi: la prima cosa che vidi fu la pelle chiara, quasi argentea della sua gola, l’arco del mento al di sopra del mio viso. La sua mascella era tesa. Cercai di appoggiarmi a un gomito per guardarlo in volto.
Fissava il baldacchino soffice sopra di noi senza ricambiare lo sguardo con cui indagavo i suoi lineamenti contratti. La sua espressione fu uno shock che mi fece sobbalzare.
«Edward», dissi con una leggera esitazione nella voce, «che c’è? Che c’è che non va?».
«E te lo chiedi?», rispose duro, cinico.
Il primo istinto, prodotto di una vita intera di insicurezze, fu di chiedermi in cosa avessi sbagliato. Ripensai a tutto ciò che era accaduto, ma non riuscii a trovare nemmeno una nota di amarezza fra i ricordi. Tutto era stato più semplice di quanto mi aspettassi: ci eravamo adattati l’uno all’altra come frammenti fatti apposta per combaciare e unirsi. Ciò mi aveva dato una soddisfazione segreta: eravamo compatibili anche fisicamente. Fuoco e ghiaccio, che chissà come esistevano affiancati senza distruggersi a vicenda. L’ennesima prova di quanto gli appartenessi.
Non riuscivo a pensare al motivo di una reazione del genere, tanto severa e fredda. Mi ero persa qualcosa?
Con le dita lisciò i solchi di preoccupazione sulla mia fronte.
«A cosa pensi?», sussurrò.
«Sei arrabbiato. Non capisco. Ho...?». Non riuscii a finire.
Mi guardò torvo. «Senti molto dolore, Bella? Voglio la verità, non fare finta che non sia nulla».
«Dolore?». La mia voce uscì più acuta del solito, perché la parola mi colse di sorpresa.
Alzò un sopracciglio, le labbra tese.
Verificai subito stiracchiandomi per bene, tendendo e contraendo i muscoli. Mi sentivo indolenzita e parecchio dolorante, in effetti, ma soprattutto avevo la sensazione strana che tutte le articolazioni si fossero scardinate, trasformandomi in qualcosa a metà fra un essere umano e una medusa. Non era una sensazione spiacevole.
Poi sentii montare la rabbia, perché Edward stava gettando delle ombre sopra la più perfetta delle mattine con le sue deduzioni pessimiste. «Perché ti sembra che dovrei star male? Non mi sono mai sentita meglio».
Chiuse gli occhi. «Piantala».
«Piantala
«Piantala di fingere che io non sia stato un vero mostro».
«Edward!», sibilai ormai infuriata. Stava trascinando i miei ricordi vividi nell’oscurità, per macchiarli. «Non dirlo mai più».
Non riaprì gli occhi, sembrava che non volesse vedermi.
«Guardati, Bella. E dimmi che non sono un mostro».
Ferita, sorpresa, lo assecondai in modo automatico e rimasi sbigottita.
Cosa mi era successo? Non riuscivo a dare un senso alla neve bianca e morbida attaccata alla mia pelle. Scossi la testa e una cascata di bianco svolazzò dai capelli.