L’unica diversità era che gli olmi visti nel viaggio non erano immobili come quelli della foto. Si muovevano, i loro rami assumevano di continuo posizioni diverse a seconda dei capricci del vento. Breton esitò prima di definirli “reali", ma lo erano! Questo significava, probabilmente, che c’era qualcosa di cambiato nei suoi viaggi, che una parte della sua mente aveva ritenuto necessario credere di avere veramente visto Kate, quel giorno. Era possibile, si domandò freddamente Breton, che la sua coscienza solitaria, colpevole, avesse sfidato le leggi della natura facendo un viaggio reale nel tempo? E se l’antico desiderio umano di compiere l’impossibile, di tornare nel passato per correggere gli errori, fosse stato la forza psichica che aveva reso possibili tutti i suoi viaggi? Questo avrebbe spiegato perché le scene rivissute erano sempre momenti cruciali che avevano determinato una svolta disastrosa nel corso della sua esistenza, Non poteva darsi che lui fosse un viaggiatore nel tempo, ostacolato, deluso, ancorato al presente dalla realtà inamovibile del suo corpo, ma che si sforzava, con la forza della mente, di proiettare un aspetto immateriale della sua identità attraverso il tempo e di bussare alle porte invisibili del passato? Se le cose stavano così, allora avrebbe continuato a rivivere fino alla morte quell’ultima, tremenda scena con Kate. E c’erano anche i tre olmi…
“Devo uscire, devo trovare un piccolo ristorante rumoroso” pensò Breton “con un juke-box, tovaglie a quadretti, grossi e volgari pomodori di plastica in mezzo ai tavoli, e normali esseri umani che parlano del più e del meno.”
Accese le luci in tutta la casa, si rinfrescò e si cambiò. Stava uscendo quando vide un’auto che risaliva lungo il vialetto. Lo sportello di destra si aprì e ne scese Hetty Calder, che guardò con disgusto la neve e vi fece cadere un po’ di cenere della sigaretta come per rappresaglia.
— Uscite? Harry e io eravamo venuti a vedere se vi occorreva qualche cosa.
Breton rimase sorpreso di constatare quanta serenità gli procurasse la vista di quella figura tozza, vestita di tweed. — Vi invito a cena — disse. — Mi farà molto piacere stare con voi.
Salì in macchina, e scambiò qualche parola con Harry Calder, un tipo di intellettuale calvo, sulla cinquantina. Il mucchio disordinato di pacchetti, sciarpe e giornali, sul sedile accanto a lui, gli ispirò un consolante senso di sicurezza, la sensazione di essere tornato nel mondo semplice e normale di tutti i giorni. Mentre attraversavano la città osservò gli addobbi natalizi, concentrandosi sui particolari, per non lasciar posto al pensiero di Kate.
— Come vi sentite, Jack? — Hetty si volse a guardare Breton, seduto in mezzo a quella confusione familiare. — Quando vi ho accompagnato a casa, oggi, avevate una brutta cera.
— Ecco, non mi sentivo molto bene. Però adesso sto meglio.
— Cos’avevate? — insisté Hetty.
Dopo un attimo di esitazione, Breton decise di provare a dire la verità. — In realtà, non ci vedo molto bene. Mi compaiono delle luci colorate davanti all’occhio destro.
E allora, inaspettatamente, Harry Calder si voltò a dire in tono comprensivo: — Prismi, disegni a zigzag? Allora siete dei nostri.
— Non capisco…
— Anch’io ho gli stessi disturbi… e poi comincia il dolore — spiegò Harry Calder. — Sono sintomi preliminari comuni a chi soffre di emicrania.
— Emicrania! — Breton sussultò. — Ma io non ho mai avuto mal di testa.
— No? Allora siete uno dei pochi fortunati… Quello che provo io dopo che tutte le luci colorate hanno smesso di ballare è davvero spiacevole, ve l’assicuro.
— Non avevo mai saputo che ci fosse un rapporto tra quei fenomeni visivi e l’emicrania — osservò Breton. — Ma, come dite voi, devo appartenere alla categoria dei fortunati.
Tuttavia il tono della sua voce suonò poco convincente anche alle sue orecchie.
Nel suo intimo, Breton si convinse della possibilità dei viaggi nel tempo attraverso un lungo travaglio doloroso che durò alcuni mesi.