«Non so se è una sciocchezza. Personalmente credo anch'io che un'intelligenza in grado di fare viaggi interstellari abbia ormai superato lo stadio del caos», replicò Samantha. «D'altra parte, credo anche che un simile argomento non possa essere trattato con leggerezza. L'umanità deve riflettere su
Anawak rimase in silenzio. Improvvisamente gli tornarono in mente le balene. «Non le capita mai di scoraggiarsi?» le chiese.
«A chi non è mai successo? Ma per quello ci sono le sigarette e i video.»
«E se raggiungesse il suo scopo?»
«Buona domanda, Leon.» Samantha fece una pausa, strisciando distrattamente il dito sul piano del tavolo. «In fondo, è da anni che mi chiedo quale sia il nostro vero scopo. Credo che, se conoscessi la risposta, interromperei le ricerche. Una risposta è sempre la fine di una ricerca. Forse siamo tormentati dalla solitudine della nostra esistenza, dall'idea di essere un caso che non si è ripetuto da nessun'altra parte. Ma forse vogliamo anche la prova che siamo soli e quindi occupiamo davvero la posizione privilegiata che sosteniamo ci spetti nel creato. Non lo so. Perché lei studia balene e delfini?»
«Sono… curioso.»
Una follia.
Sembrava che Samantha avesse intuito i suoi pensieri. «Non facciamoci illusioni, la questione non è se, alla fine delle nostre ricerche, troveremo intelligenze aliene. In realtà, alla base delle nostre ricerche c'è una sola domanda: come cambierebbe l'umanità dopo la scoperta di altre intelligenze? Cosa ci resterebbe? E cosa perderemmo per sempre?» La donna si appoggiò allo schienale, si raddrizzò e gli rivolse un sorriso gentile. «Sa, Leon, credo che alla fine sia solo l'eterna domanda sul senso della vita.»
Continuarono a parlare un po' di tutto, ma non di cetacei e di civiltà extraterrestri. Intorno alle dieci e mezzo — dopo aver bevuto un ultimo drink davanti al camino — si salutarono. Samantha gli aveva detto che sarebbe partita due giorni dopo. Uscirono dal ristorante e si accorsero che le nuvole erano sparite e il cielo stellato sembrava volerli risucchiare. Rimasero per un po' a guardarlo.
«Non le capita di averne abbastanza delle sue stelle?» chiese Anawak.
«Ne ha abbastanza delle sue balene?»
«No, certo che no», replicò lui, sorridendo.
«Spero che riesca a ritrovare i suoi animali.»
«Glielo farò sapere, Sam.»
«Lo verrò a sapere di certo, ma non da lei, perché le conoscenze sono sempre precarie. È stata una bella serata, Leon. Se c'incontreremo di nuovo ne sarò felice, ma lei sa bene come vanno le cose. Si prenda cura dei suoi animali… Credo che abbiano in lei un buon amico. Lei è una brava persona.»
«Come fa a saperlo?» chiese lui.
«Visto ciò di cui mi occupo, per me convinzione e conoscenza sono necessariamente sulla stessa lunghezza d'onda. Faccia attenzione.»
Si strinsero la mano.
«Forse ci rivedremo come orche», scherzò Anawak.
«Perché proprio come orche?»
«Gli indiani kawkiutl credono che i buoni rinascano come orche.»
«Davvero? Mi piace.» Sembrava che tutto il viso di Samantha sorridesse. La maggior parte delle sue rughe era dovuta alle risate, pensò Anawak. «E lo crede anche lei?» gli domandò.
«Certo che no.»
«Perché no? Non lo è anche lei?»
«Sono che cosa?» chiese Anawak, benché sapesse benissimo che cosa intendesse.
«Un indiano.»
Anawak s'irrigidì. Si vedeva attraverso gli occhi di quella donna. Un uomo tarchiato, di media statura, con zigomi ampi e pelle color rame, gli occhi leggermente a fessura e i capelli folti, nerissimi e lisci che gli cadevano sulla fronte. «Qualcosa del genere», disse dopo una lunga pausa.
Samantha Crowe lo fissò. Poi tirò fuori dalla giacca a vento il pacchetto di sigarette e ne accese una. «Già. Sono ossessionata anche da queste cose. Stia bene, Leon.»
«Stia bene, Sam.»
13 marzo
Costa norvegese e mar di Norvegia