Imprecò. Il presunto mondo così piccolo era tornato di nuovo grande, pieno di spazi invalicabili. Al mattino, gli avevano detto che, nel corso della giornata, le e-mail sarebbero state ricevute via satellite, ma fino a quel momento non si era ancora visto nulla. A quanto pareva, erano ancora vincolati al cavo distrutto. Bohrmann sapeva che l'unità di crisi stava lavorando febbrilmente, tuttavia Internet collassava in continuazione. E lui presumeva che non dipendesse tanto dalle carenze tecniche quanto dalla volontà. Era vero che i satelliti lavoravano alla perfezione, ma l'esercito americano non aveva ancora dato la completa disponibilità a trasferire sui satelliti il traffico dei cavi ottici transatlantici.
Prese il telefono satellitare che l'unità di crisi gli aveva messo a disposizione, si mise in contatto con Kiel e attese. Dopo diversi squilli, finalmente all'istituto risposero e gli passarono Suess. «Non è arrivato niente», disse Bohrmann.
«Valeva la pena tentare.» La voce di Suess si sentiva bene, ma Bohrmann era irritato per il ritardo con cui rispondeva. Non riusciva ad abituarsi alle telefonate satellitari. Il segnale partito dal trasmettitore doveva risalire per circa trentaseimila chilometri e discendere di altrettanti per raggiungere il ricevente. Ci si telefonava facendo lunghe pause e sovrapponendosi parzialmente. «Anche da noi non funziona nulla. Peggiora di ora in ora. Non si riesce più a raggiungere la Norvegia, in Scozia tutto tace, la Danimarca ormai esiste solo sulla carta geografica. E non credere che ci sia qualche piano d'emergenza.»
«Eppure noi ci stiamo telefonando», disse Bohrmann.
«Stiamo telefonando perché gli americani sono attrezzati. Stai sfruttando la superiorità militare di una grande potenza. In Europa… Scordatelo! Tutti vogliono telefonare, tutti sono in ansia perché non sanno nulla di parenti e amici. C'è un intasamento di dati. Le poche reti libere sono occupate dalle unità di crisi e dai governi.»
«Allora, che facciamo?» disse Bohrmann dopo una pausa d'indecisione.
«Non lo so. Forse riparte la
Bohrmann fece una risata amara. «Parliamo seriamente», disse.
«Allora ti devi procurare qualcosa per scrivere. Non posso fare diversamente.»
«Ho da scrivere», sospirò Bohrmann.
Mentre annotava quello che Suess gli diceva, un gruppo di uomini in uniforme attraversò la hall alle sue spalle e si avviò verso gli ascensori. Il loro comandante era un nero alto, dai tratti etiopi. Aveva i gradi di maggiore delle forze armate americane e una targhetta col nome PEAK.
Il gruppo entrò in uno degli ascensori. La maggior parte scese al secondo o al terzo piano. Gli altri lasciarono l'ascensore al quarto.
Il maggiore Salomon Peak rimase sull'ascensore e proseguì fino al nono piano. Là c'erano le gold executive suite, il meglio delle cinquecentocinquanta camere dello Château. Lo stesso Peak abitava in una junior suite al piano inferiore. Una normalissima camera singola gli sarebbe bastata. Non dava importanza al lusso, ma la direzione dell'hotel si era preoccupata di fornire all'unità di crisi le stanze migliori. Mentre camminava lungo il corridoio, il rumore dei passi attutito dal tappeto, non riusciva a levarsi dalla mente quello che era successo durante la riunione pomeridiana. Incrociava uomini e donne, con abiti civili e in uniforme. Le porte erano aperte e permettevano di vedere all'interno delle suite, trasformate in uffici. Dopo qualche secondo raggiunse una grande porta. Due soldati lo salutarono e Peak rispose con un cenno. Uno dei due bussò e attese la risposta dall'interno, poi aprì di scatto e fece entrare il maggiore.
«Come va?» disse Judith Li.
Si era fatta portare dalla palestra un tapis roulant. Peak sapeva che Judith Li passava più tempo su quel nastro che a letto. Da lì guardava la televisione, sbrigava la corrispondenza, dettava memorandum, ordini e discorsi grazie al sistema di riconoscimento vocale del suo laptop, faceva telefonate, riceveva informazioni su ogni cosa, oppure pensava. Stava correndo anche in quel momento. I capelli neri tenuti da una fascia erano lisci e splendenti. Indossava una tuta leggera, con pantaloncini corti e stretti. Nonostante il ritmo sostenuto, il suo respiro era regolare. Ogni volta, Peak doveva richiamare alla memoria che quella donna sul tapis roulant aveva quarantotto anni. Judith Li sembrava averne meno di quaranta ed era in forma perfetta.
«Non male», disse Peak. «Grazie.»