«È uno Château Clinet del '90. Pomerol. Alleggerisce il portafoglio e i pensieri.» Johanson adocchiò una cassa metallica vicino a uno degli uffici e vi si diresse. Si sedettero. Non si vedeva nessuno. Di fronte a loro si spalancava il portone della piattaforma di dritta, rivelando il mare che si stendeva, tranquillo e piatto nella penombra della notte polare, attraversato da veli di foschia e gelo, ma senza ghiaccio. Nell'hangar faceva freddo, ma, dopo le ore trascorse nel laboratorio di massima sicurezza, avevano bisogno di aria fresca. Johanson stappò la bottiglia, versò il vino e accostò il suo bicchiere a quello della donna. Un suono cristallino si perse nell'immensità nebbiosa.
«Buono», affermò Sue.
Johanson fece schioccare le labbra. «Ho portato con me qualche bottiglia per le occasioni speciali», disse. «E questa è un'occasione speciale.»
«Crede che riusciremo a trovare le tracce di quelle cose?»
«Forse li abbiamo già.»
«Gli yrr?»
«Già, la questione è proprio questa. Che cosa abbiamo nella cisterna? È possibile immaginare un'intelligenza formata da organismi unicellulari? Da amebe?»
«Se guardo con attenzione l'umanità, mi chiedo cosa ci differenzia dalle amebe.»
«La complessità.»
«È un vantaggio?»
«Lei che ne pensa?»
Sue scrollò le spalle. «Quello che può pensare una microbiologa. Io non ho una cattedra come lei. Non mi confronto con giovani studenti arrabbiati, non comunico con l'opinione pubblica e soffro per la mancanza di distacco da me stessa. Sono una cavia da laboratorio in forma umana. Forse ho i paraocchi, ma vedo ovunque solo microrganismi. Viviamo nell'epoca dei batteri. Mantengono invariata la loro forma da oltre tre miliardi di anni. L'umanità non è altro che una moda passeggera; quando il sole esploderà, da qualche parte ci sarà ancora qualche microbo. Loro sono il vero modello vincente su questo pianeta, non noi. Non so se gli uomini abbiano vantaggi rispetto ai batteri, però se arriveremo a dimostrare che i microbi possiedono l'intelligenza, allora, secondo me, saremo proprio nella merda.»
Johanson sorseggiò il vino. «Sì, sarebbe fatale. Anche solo per quello che le Chiese cristiane dovrebbero spiegare ai loro fedeli: che la creazione divina ha raggiunto il suo apice il quinto giorno, non il sesto.»
«Posso farle una domanda personale?»
«Certo.»
«Come fa a venire a capo di tutta questa faccenda?»
«Finché c'è del Bordeaux eccezionale non vedo difficoltà insormontabili.»
«Non prova rabbia?»
«Contro chi?»
«Contro quelli là sotto.»
«È possibile risolvere questo problema con la rabbia?»
«Certo che no, o mio Socrate!» Sue fece un sorriso stentato. «M'interessa, davvero. Hanno distrutto la sua casa…»
«Sì, una parte.»
«Non lo trova terribile? La sua casa a Trondheim…»
Johanson fece ruotare il vino nel bicchiere. «Meno di quanto pensassi», disse, dopo un momento di silenzio. «Certo, era una casa fantastica, piena di cose magnifiche, ma non conteneva la mia vita. È sorprendente come ci si stacchi con facilità dalla propria cantina e da una biblioteca ben selezionata. Inoltre, per quanto strano possa sembrare, me ne ero già staccato da tempo. Dal giorno in cui sono volato alle Shetland devo essermi congedato dalla mia casa, in un certo senso senza neppure accorgermene. Ho chiuso la porta, me ne sono andato e, nel contempo, si è chiuso qualcosa anche nella mia testa. Ho pensato: se dovessi morire, quale sarebbe la cosa di cui sentiresti maggiormente la mancanza? E non era la casa. Non quella.»
«Ce n'è un'altra?»
«Sì.» Johanson bevve. «Su un lago nell'entroterra. Quando si è seduti là, sulla veranda, guardando l'acqua, si ascolta Sibelius o Brahms, e si beve un sorso di vino… è una cosa completamente diversa. È quello il luogo di cui sento davvero la mancanza.»
«Sembra bello.»
«Sa perché sopporto tutto questo? Per poter tornare là.» Johanson prese la bottiglia e le riempì il bicchiere. «Dovrebbe esserci stata, aver visto il cielo stellato che si specchia nell'acqua. Non lo dimenticherebbe più. Tutta la sua esistenza sarebbe legata a quell'isolata scintilla. L'universo diventerebbe come trasparente. Un'esperienza straordinaria, ma che si può fare soltanto da soli.»
«È stato là dopo lo tsunami?»
«Nel ricordo.»
Sue bevve un sorso di vino. «Sinora sono stata fortunata», mormorò. «Io non ho perso nulla. Ho ancora tutto, gli amici e la famiglia.» Si fermò un momento e sorrise. «Però non ho una casa al lago.»
«Tutti hanno una casa al lago.»
Le parve che Johanson volesse aggiungere qualcosa. E invece lui si limitò a far girare di nuovo il vino nel bicchiere. Rimasero lì a bere il Bordeaux e a guardare la foschia che si stendeva sul mare.
«Ho perso un'amica», disse infine Johanson.
Sue rimase in silenzio.
«Era un po' complicata. Faceva sempre tutto di corsa.» Sorrise. «Strano, ci siamo trovati davvero solo dopo esserci lasciati. Ma sì. È il corso delle cose.»
«Mi dispiace», mormorò Sue.