Johanson annuì. La fissò, ma poi il suo sguardo parve oltrepassarle. Era come se i suoi occhi si fossero pietrificati. Sue aggrottò la fronte e voltò la testa. «C'è qualcosa?»
«Ho visto Rubin.»
«Dove?»
«Laggiù.» Johanson indicò la parete dell'hangar nel mezzo della nave. «È entrato là.»
«Entrato? Là non c'è nulla in cui si possa entrare.»
Una parete alta diversi metri divideva l'hangar dal resto del ponte. Sue aveva ragione. Laggiù non c'erano porte. «Che ci sia qualcosa nel vino?» ironizzò.
Johanson scosse la testa. «Posso giurare che era Rubin. È comparso per un attimo, poi è sparito.»
«Ne è sicuro?»
«Sicurissimo.»
«Ci ha visto?»
«Difficile. Siamo in un angolo in ombra. Avrebbe dovuto guardare con molta attenzione.»
«Chiediamogli se si è rimesso in forma.»
Johanson continuava a osservare la parete. Poi disse: «Sì. Chiediamoglielo».
Quando tornarono in laboratorio, la bottiglia di Bordeaux era vuota per metà, ma Sue non si sentiva ubriaca. In un certo senso, il vino non aveva fatto effetto nell'aria gelida. Era solo straordinariamente allegra e animata dal pensiero di fare una scoperta eccezionale.
E la fece.
Nel laboratorio di massima sicurezza, la macchina aveva finito il proprio lavoro. Fecero arrivare i risultati sulla console del computer all'esterno del laboratorio. Lo schermo mostrava una serie di sequenze di base. Le pupille di Sue si muovevano a zig-zag, mentre lei scorreva le righe dall'alto in basso. A ogni fila, la sua mandibola sembrava abbassarsi un po'. «Non può essere», mormorò.
«Che cosa?» Johanson si chinò sulle sue spalle. Lesse. E tra le sue sopracciglia si formarono due profonde rughe. «Sono tutte diverse!»
«Sì.»
«Impossibile! Esseri identici hanno DNA identico.»
«Gli esseri di una specie sì.»
«Ma questi sono esseri di una specie.»
«Le forme naturali di mutazione…»
«Se le scordi!» Johanson era sconcertato. «Siamo ben oltre. Questi sono esseri diversi, tutti quanti! Nessun DNA è esattamente uguale all'altro.»
«In ogni caso non sono amebe normali.»
«No. In loro non c'è niente di normale.»
«Cosa sono, allora?»
Johanson guardò i risultati. «Non lo so.»
«Neanch'io.» Sue si stropicciò gli occhi. «Però so una cosa. In quella bottiglia c'è ancora del vino. E adesso ne ho proprio bisogno.»
Johanson
Johanson cercò nelle banche dati per confrontare la sequenza del DNA della gelatina con altre analisi già descritte. Sue incappò nel risultato che lei stessa aveva raggiunto il giorno in cui aveva esaminato la sostanza nella testa delle balene. All'epoca, non aveva potuto stabilire differenze nella successione delle coppie di basi. «Avrei dovuto esaminare in maniera più approfondita quelle cellule», borbottò.
Johanson scosse la testa. «Forse non avrebbe trovato niente comunque.»
«Non importa!»
«Come avrebbe potuto sospettare che avevamo a che fare con la fusione di organismi unicellulari? Forza, Sue, è inutile. Lasci perdere e si concentri su questo.»
Sue sospirò. «Sì, ha ragione.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Okay, Johanson. Vada a dormire.»
«E lei?»
«Io vado avanti. Voglio sapere se questo caos di DNA è già stato descritto da qualche parte.»
«Potremmo dividerci il lavoro.»
«Non se ne parla neanche.»
«Non m'importa.»
«Mi ascolti, Sigur! Lei ha bisogno del suo sonno rigeneratore, io no. Da quando ho compiuto quarant'anni, la natura mi ha fornito di rughe e di borse sotto gli occhi. Per me non c'è differenza se sono sveglia o se mi rigiro nel letto. Vada e si porti via quello che resta del suo squisito vino rosso, altrimenti rischio di bermi con quello anche la mia obiettività scientifica.»
Johanson ebbe l'impressione che preferisse occuparsi da sola della faccenda. Era insoddisfatta di se stessa. Naturalmente non aveva nulla da rimproverarsi, ma forse sarebbe stato comunque meglio lasciarla in pace.
Prese la bottiglia e lasciò il laboratorio.
Appena fuori, si rese conto di essere un po' stanco. Oltre il Circolo Polare Artico, il tempo si perdeva. La luce costante dilatava all'infinito il giorno, interrotto solo da poche ore di crepuscolo. Il sole sfuggiva agli sguardi facendo appena capolino da sotto l'orizzonte. Con un po' di buona volontà, quella si poteva definire notte. Dal punto di vista psicologico, era l'occasione migliore per andare a dormire.
Ma Johanson non ne aveva voglia.
Invece risalì la rampa.
Le dimensioni del gigantesco ponte dell'hangar si perdevano nelle ombre squadrate. Come sempre, non si vedeva nessuno. Lanciò un'occhiata al luogo in cui avevano aperto la bottiglia e trovò la cassa nascosta nell'oscurità.
Non era possibile che avesse visto Rubin.
Eppure l'aveva visto!
A che scopo dormire? Doveva osservare ancora una volta la parete.