Con grande delusione e sorpresa, l'ispezione non portò risultati. La percorse diverse volte, fece scorrere le dita lungo le giunture dei pannelli d'acciaio, sulle tubature e sulle casse, ma sembrava proprio che Sue avesse ragione. Doveva aver avuto un'allucinazione. Non c'era niente, né una porta né qualcosa che potesse costituire un passaggio. «E invece non mi sbaglio», si disse sottovoce.
Doveva proprio andare a dormire? Avrebbe comunque continuato a rimuginare su quella faccenda. Forse era il caso di chiedere a qualcuno. A Judith Li, per esempio, oppure a Peak, a Buchanan o ad Anderson. Ma cosa sarebbe successo se si fosse davvero sbagliato?
Sarebbe stato piuttosto imbarazzante.
Senza fretta tornò nella parte dell'hangar verso poppa, si sedette sulla cassa e attese. Quel posto non era male. Anche se fosse arrivato alla conclusione che effettivamente Rubin non era passato attraverso la parete, avrebbe potuto godersi la vista del mare per un po'.
Bevve una sorsata dalla bottiglia.
Il Bordeaux lo scaldò. Le sue palpebre cominciarono a diventare pesanti, finché non riuscì quasi più a tenerle aperte. In effetti era stanco. Però Johanson era uno di quegli uomini che si rifiutavano di arrendersi alle leggi imposte dalla natura al corpo umano. A un certo punto, quando la bottiglia era ormai vuota, finalmente si assopì e il suo spirito aleggiò sopra il mar di Groenlandia, coperto dalla foschia.
Un lieve rumore metallico lo fece sobbalzare.
In un primo momento, lui non rammentò neppure dove fosse. Poi sentì dolorosamente la parete d'acciaio dell'hangar contro la regione lombare. Sul mare, il cielo si era schiarito. Si rialzò a fatica e guardò lungo la parete.
Era aperta.
Ancora intontito, Johanson scese dalla cassa. Nella parete si era aperto un passaggio, grande all'incirca quattro metri quadrati. Si spalancava, luminoso, in mezzo all'acciaio scuro.
Guardò la bottiglia vuota sulla cassa.
Stava sognando?
Si avvicinò al quadrato luminoso e si accorse che dava su un corridoio con le pareti nude. Tubi al neon diffondevano una luce fredda. Dopo pochi metri, il corridoio raggiungeva una parete e faceva una curva.
Johanson spiò all'interno e rimase in ascolto.
Dalla parte opposta arrivavano voci e rumori. D'istinto, fece un passo indietro, riflettendo se non fosse il caso di sparire il più in fretta possibile. In fondo, si trovava su una nave da guerra. Quel settore avrà pure avuto qualche funzione, no? Magari qualcosa in cui i civili non dovevano mettere il naso.
Poi pensò a Rubin.
No! Se se ne fosse andato, non avrebbe più smesso di pensarci.
Rubin era stato lì!
Johanson entrò.
14 agosto
Bohrmann cercava di godersi il bel tempo, ma non c'era proprio niente di cui godere. Non con milioni di vermi quattrocento metri sotto di lui e con miliardi di batteri che, in un tempo spaventosamente breve, si stavano aprendo la strada nelle sottili ramificazioni degli idrati sul cono vulcanico di La Palma.
Passò attraverso la piattaforma e raggiunse l'edificio principale.
L'
A poppa s'innalzava un edificio a due piani che ospitava gli alloggi per l'equipaggio, la mensa, la cucina, il ponte di comando e la sala di controllo. Di fronte, svettavano nel cielo due gru imponenti, ciascuna delle quali poteva sollevare tremila tonnellate. Dalla gru di destra veniva calato negli abissi il condotto dell'aspiratore; l'altra sosteneva il sistema d'illuminazione, un'unità separata con telecamere integrate. Quattro uomini, sistemati nelle cabine di controllo sopraelevate, erano impegnati esclusivamente a coordinare e guidare l'aspiratore e l'isola d'illuminazione.
«Gerrhaard!»