— Eccoci qua, tesoro. — Betty si fermò davanti alla porta della camera da letto, si voltò a guardare Redpath. Le scale le avevano messo il fiatone. I suoi seni abbondanti si alzavano e si abbassavano sotto la camicetta. Redpath notò il fenomeno con distacco assoluto, protese le dita verso la maniglia, ansioso di entrare in camera e chiudere la porta a chiave e restare solo con se stesso.
Betty gli guardò la mano. — Ti sei tagliato?
— Non è niente. Un pezzo di vetro.
— Mi faccio dare un cerotto dalla signorina Connie.
— No, non preoccuparti. Sono solo un po’ stanco, è tutto. Vorrei riposare. — Redpath entrò nella stanza. Era un sollievo che Betty non cercasse di seguirlo. — Se riesco a dormire per un paio d’ore, poi possiamo parlare dell’affitto e di tutto il resto. Okay?
Betty annuì, gli rivolse un sorriso comprensivo. — Sei nei guai, tesoro?
— Perché me lo chiedi? — Redpath cercò di mostrarsi indignato.
— Qui sarai al sicuro, tesoro. Qui nessuno può trovarti.
— Grazie. — Redpath chiuse la porta. Assalito dal panico, cominciò a dondolare la testa. “È incredibile, maledizione. Va bene che a volte le padrone di casa esagerano, ma questo è un po’ troppo. Perché mi ha detto che qui sono al sicuro? Che razza di posto è questo? Cosa ci faccio qui?”
Scrutò la stanza, studiò il linoleum sporco, i mobili tutti diversi, le due luci; poi si avvicinò alla finestra. Fuori, l’unica cosa diversa era l’angolazione delle ombre. C’era sempre quell’interruzione nella fila di case che gli lasciava vedere Calbridge, e, come già era successo prima, lui pensò che il panorama della città fosse meravigliosamente attraente; però adesso tutte quelle cose, tutta quella normalità, erano lontanissime, irraggiungibili. Impossibile sedersi al tavolino di un bar, sfogliare i settimanali spiegazzati del barbiere, riportare un libro in quel santuario di quiete che era la biblioteca pubblica…
Si aggrappò alla traversa centrale della finestra e spinse con tutta la sua forza, quasi sperando che il legno cedesse. La finestra tremò leggermente. Un pezzetto di carta, che forse serviva a impedire le vibrazioni, cadde da un cardine. Lo raccolse soprappensiero, lo srotolò. Sul foglio era stampata un’intestazione: Commodore Hotel, Hastings, Sussex. Automaticamente, i suoi occhi lessero le parole scritte con un pennarello verde.
“La cheratina è una proteina fibrosa che contiene quantità notevoli di zolfo. È presente nell’epidermide dei vertebrati e forma gli strati esterni della pelle, molto resistenti; inoltre forma capelli, piume, scaglie, unghie, artigli, zoccoli e i rivestimenti esterni delle corna dei buoi, dei montoni, eccetera. Il che significa che, a parità di peso, probabilmente un volatile è un migliore…”
Redpath fissò quelle righe, rabbioso perché non avevano il minimo rapporto con la sua odissea; poi appallottolò il foglio. Si girò, si buttò sul letto, e immerse la faccia nei cuscini.
— Mi spiace tanto, Leila — mormorò. — Mi spiace di essere possessivo, mi spiace di aver pensato che sei fredda come il ghiaccio, mi spiace di averti trafitta con quel coltello… Leila! Leila!
L’incubo cominciò in sordina. Sembrava un incubo di seconda classe.
Redpath, che era un esperto in faccende del genere, aveva studiato il suo sistema di classificazione in gioventù. Gli incubi di prima classe erano i peggiori, quelli che violentavano l’anima, che distruggevano la mente; erano i sogni da cui si svegliava urlando e che lo costringevano a vedere l’alba leggendo giornali in cucina. Rimettersi a dormire sarebbe stato un rischio, perché il suo inconscio era stato contaminato da qualcosa di orribile, da una presenza mostruosa che solo la luce del mattino poteva disperdere. Redpath sapeva benissimo che gli incubi di prima classe erano tanto terribili perché all’inizio non sembravano incubi, e così lui si trovava del tutto indifeso, era portato a credere che si trattasse di avvenimenti reali.
Un incubo di seconda classe poteva essere altrettanto spaventoso; solo che in quel caso entrava in gioco una sorta di sdoppiamento di coscienza, e lui sapeva che si trattava di un sogno, e quindi era al sicuro. Era in grado di affrontare gli incubi di seconda classe, di interessarsi da un punto di vista distaccato, quasi accademico, a quel gioco d’ombre. Sì, era impaurito; ma era la stessa paura piacevole, normale, che provava da ragazzo quando andava a vedere un film dell’orrore, perché allora poteva sempre staccare gli occhi dallo schermo e guardare le insegne luminose delle uscite di sicurezza, o il soffitto del cinematografo.
Si trovava sulle scale della casa di Raby Street, guardava giù nell’atrio, e sapeva che si trattava di un sogno perché il pavimento dell’atrio era stranissimo. Troppo grande, troppo spazioso; e al posto del linoleum grigio c’erano mattonelle color verde pallido e crema, con disegni in rilievo. Si trattava ovviamente del pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons.
“Attenzione! Pericolo!”