— Albert? — Redpath si tirò in piedi e si fece strada fra la barricata di corpi. L’angolo della strada era deserto. Corse all’incrocio, guardò nella via da cui era giunto poco tempo prima, aspettandosi di vedere un uomo in tuta marrone che fuggiva. Ma la strada era deserta, a parte un gruppo di bambini assorti nei loro giochi. Redpath si sforzò di pensare, sommerso com’era da un misto di dolore, nausea e sorpresa. Era possibile che Albert, ammesso che si trattasse proprio di Albert, fosse arrivato alla casa tanto in fretta? Che avesse percorso un centinaio di metri nel tempo che lui aveva impiegato per percorrerne una quindicina?
— Dove vai, amico? — gridò qualcuno alle sue spalle.
— Sto bene — farfugliò Redpath. — Va tutto benissimo. — Strinse le mani sul basso ventre e si mise a correre verso la casa. Il marciapiede battuto dal sole sembrava rollare come il ponte di una nave. Redpath aveva la folle impressione di essere seguito. Arrivò alla casa in cui si era svegliato, la riconobbe quasi istintivamente, salì gli scalini di corsa. La porta era leggermente aperta. Corse nell’atrio e mise il catenaccio alla porta, respirando affannosamente. La casa era silenziosa e deserta come prima.
— Albert! — La sua voce era quella di un pazzo, di uno sconosciuto. — Dove sei, bastardo?
Redpath si trascinò lungo la parete, raggiunse la prima porta interna, l’aprì: il soggiorno era deserto, le poltrone imbottite dormivano in un silenzio inquietante. Anche l’altra stanza, dotata d’un tavolo lungo e di sedie con le gambe all’insù, era deserta. Redpath si fermò, cercò di calmare l’affanno. Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere che in cucina non c’era nessuno, e in quanto alla cantina… be’, in cantina c’era già stato, e non aveva intenzione di tornarci. Il dolore al basso ventre diventava sempre più forte, minacciava di travolgerlo. Corse fuori, continuando a stringersi i genitali con le mani, raggiunse le scale e salì… Salì per un tempo lunghissimo, fino al pianerottolo del primo piano. La parte di pianerottolo che girava attorno al retro della casa aveva una porta sulla destra e due sulla sinistra. La porta a destra era quella che, nel suo incubo, portava alla camera da letto di Albert. La spalancò e scrutò, stanchissimo, la stanza vuota, col letto su cui nessuno aveva dormito. Uscì, aprì la prima porta sul lato opposto del pianerottolo. Dava sulla stanza più piccola di tutta la casa; conteneva solo un tavolo da toeletta. Barcollando fece tre passi, arrivò all’ultima porta, la spalancò: era il bagno. Si trovò a guardare nella vasca. Conteneva due corpi umani orrendamente neri; uno, forse, era il corpo di una donna. E sembrava fossero stati scorticati…
“Oh, no!
“Oh, Cristo… NO!”
Il mondo scomparve, scivolò via su un’onda veloce, ripugnante, orribile, di forza irresistibile. Redpath cadde a terra di colpo, perdendo coscienza lentamente. L’ultima cosa che vide fu la finestra in fondo al pianerottolo, scintillante di luce. Sui vetri, un giglio giallo dispiegava i petali, come un uccello da preda sul punto di spiccare il volo. Lui sbatté gli occhi, terrorizzato, incapace di pensare, e scoprì che sul pianerottolo c’erano altre persone, che i loro corpi bloccavano la luce.
Erano tutti lì con lui, gli sorridevano.
Betty York, la Regina degli Zingari; Albert, strano e incomprensibile; la vecchia signorina Connie; e Wilbur Tennent, lo scommettitore grasso e benevolo.
Erano tutti e quattro con lui.
Sorridenti.
Redpath chiuse gli occhi e cercò di morire.
4
— Sei sicura di non volere un passaggio? — Henry Nevison aprì la portiera della sua Triumph verde, esitò un attimo prima di salire. — Leicester Road è praticamente sul mio percorso verso casa.
Leila Mostyn scosse la testa. — Grazie, Henry, ma devo fare un salto in un paio di negozi. L’autobus va benissimo.
— Pensi che per domattina ti avranno riparato la macchina?
— Spero di sì. Ho chiamato il mio elettrauto. Ha detto che faceva un salto dopo pranzo a cambiare la batteria.
— Bene. Comunque se hai problemi telefonami, e domattina passo io a prenderti.
— Grazie. — Leila restò a guardare Nevison che si infilava in macchina con una serie di contorcimenti faticosi. Chissà perché un uomo della sua età e del suo calibro aveva scelto un’auto così scomoda. Persino lei, tanto più giovane di Nevison e più bassa di una decina di centimetri, aveva trovato tutt’altro che facile salire e scendere dalla Triumph con disinvoltura. Henry le aveva prestato la macchina a mezzogiorno, visto che doveva tornare a casa a prendere i diagrammi di riscontro semestrale; e guidare la Triumph le era sembrato faticoso, le aveva fatto rimpiangere la comodità della sua mini. La spiegazione più ovvia era che Henry Nevison cercasse di ritrovare la gioventù perduta; però lei non si fidava di quelle analisi psicologiche sommarie, buone solo per i rotocalchi. Gli esseri umani sono troppo complicati per lasciarsi inquadrare in teorie così semplicistiche; ad esempio, bastava prendere John Redpath…