Restò ad ascoltare i rumori della casa che si preparava per la notte, lo scorrere dell’acqua nelle stanze, il ronzio delle tubature, le porte che si chiudevano. Qualcuno passò davanti alla sua porta; probabilmente Wilbur Tennent, diretto in camera da letto. Poi cadde il silenzio, e Redpath si accorse che il lampadario ronzava piano, segno che l’impianto elettrico era scadente.
Pensò di uscire dal letto per spegnere la luce, ma trovarsi immerso nelle tenebre era un fatto troppo estremo e pericoloso, una situazione da rimandare finché non avesse avuto il tempo di soppesarne tutte le conseguenze.
Si rimboccò la trapunta, si sistemò in una posizione più comoda; poi, a titolo puramente sperimentale, chiuse gli occhi, per vedere se riusciva a dormire…
Fu subito chiaro che l’incubo era un incubo, per cui si trattava di roba di seconda classe. In un angolo isolato della sua coscienza nacque un senso di gratitudine, ma solo per un attimo. Stando alle regole, sapere che un sogno era un sogno avrebbe dovuto diluirne l’effetto, permettergli di tirarsi indietro e osservare con interesse indulgente i parti più recenti del suo subconscio; ma questa volta, qualcosa non andava. Si trovava di nuovo in cima a una scala e guardava un pavimento a mattonelle verdi e crema, il pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons; però sapeva che in realtà quel pavimento non esisteva, perché lui aveva dato le dimissioni e non sarebbe mai più tornato all’Istituto. Eppure l’immagine era chiara, nettissima. I suoi sensi la percepivano come una parte indiscutibilmente reale del mondo esterno.
“Cosa succede? Riesco a pensare come se fossi sveglio?”
Redpath, preso da un fascino irresistibile, restò a guardare il pavimento che cambiava colore. Alcune mattonelle diventavano blu e semitrasparenti; altre si trasformavano in pezzi di ambra, rubino e citrino. Sembravano illuminate dal basso da luci che variavano continuamente d’intensità, creando toni sempre diversi; e c’era di nuovo quella sensazione di movimento, come se in ogni mattonella fosse chiuso un animale che si agitava. La visione non aveva per lui nessun significato, anzi, a paragone di alcuni degli ultimi sogni era quasi bella; eppure, mentre osservava quelle geometrie cangianti, fu preso da un senso di apprensione che lo lasciò spossato, paralizzato. Stava per succedere qualcosa, qualcosa di orribile. Era sicuro che nessuno dei terrori già sperimentati lo avesse nemmeno lontanamente preparato a quello che lo attendeva ora.
“L’ultima volta mi è andata bene. L’incubo non è cominciato. Ma adesso sta cominciando.”
Ai margini della visione ci fu un movimento, uno spostamento continuo. Una massa scura stava avanzando verso di lui. Sembrava sangue vecchio, di consistenza molliccia. Milioni di filamenti simili a lumache, composti di qualcosa che ricordava il fegato, si contorcevano in superficie. Il fronte della massa tremolava, esitava, si riversava sul pavimento. Pseudopodi sottili, tremuli, si protendevano da una mattonella all’altra. A volte si ritiravano, come di fronte a condizioni sfavorevoli; più spesso avanzavano, si ricoprivano di fluidi neri, e l’orribile poltiglia organica invadeva un’altra parte di pavimento. Redpath, imprigionato nell’immobilità gelida di chi sta sognando, avrebbe voluto costringersi a fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di spezzare la paralisi, pur di far capire all’intero universo che quella situazione gli ripugnava, che non aveva nessuna voglia di morire, che non si sarebbe lasciato inghiottire supinamente da… Da cosa?
Un conato di vomito prese a scuotergli piano il corpo; e in quel momento capì, sbalordito, che essere divorato da quella massa di sangue senziente non era l’orrore definitivo. Lo aspettava qualcos’altro. Qualcosa di molto peggio.
I suoi occhi si posarono su quattro mattonelle al centro del pavimento, che fino ad allora non avevano subìto metamorfosi. Mentre guardava, il quadro formato dalle mattonelle divenne sempre più scuro, e all’improvviso si trasformò in un coperchio trasparente che chiudeva un pozzo di buio assoluto. Al centro del rettangolo di tenebre nacque un puntino di luce. Divenne più luminoso, si divise in due. Adesso stava fissando un piccolo disco blu e bianco e una macchia di luminosità bianca, intensa come una stella.
Per un attimo gli sembrò che gli avessero tolto un peso dalle spalle. “È come guardare in un telescopio astronomico” pensò. “Santo cielo, quella potrebbe essere la Terra, e quell’altra…
Di colpo, senza preavviso, il fragile edificio dei suoi pensieri fu travolto da un torrente di emozioni primitive. La paura si mischiò all’odio e al disgusto; ma la paura era sempre predominante, era la sensazione principale, il torrente che trascinava con sé tutte le altre emozioni verso quel pozzo buio e pulsante. La paura, la paura, la paura…
No! L’urlo gli fece quasi esplodere il cervello. “No! No! No!”