Sapeva benissimo perché doveva indagare, sradicare ogni ombra di dubbio sugli avvenimenti del giorno prima e della notte. Quella casa lo aveva spaventato. Aveva preso d’assedio la roccaforte del suo materialismo, del suo buonsenso. Andarsene ora, quasi certo dell’esistenza di orrori soprannaturali, avrebbe significato concedere la vittoria alla casa. Sarebbe diventato un’altra persona. Davanti al buio avrebbe reagito come un bambino spaventato, come un selvaggio superstizioso. E la vita era già abbastanza dura…
Redpath si girò e si incamminò verso la porta della cucina.
La cucina era lunga. A metà della parete di sinistra si trovava un vecchio lavandino di porcellana, tutto crepato e pieno di piatti sporchi. Anche quel particolare corrispondeva esattamente al sogno, ma non lo turbò troppo perché poteva venire come logica deduzione dall’esperienza. Le vecchie case di quel tipo avevano tutte, più o meno, la stessa struttura; la mancanza di ammodernamenti lasciava supporre che probabilmente il lavandino era sempre lo stesso; e Betty York non gli sembrava così scrupolosa da mettersi a lavare i piatti dopo ogni pranzo. Nello stesso angolo del sogno c’era anche il frigorifero, ma era la posizione più naturale in cui sistemarlo. Tutto si riduceva alla porta che dava in cantina, ammesso che portasse davvero in cantina.
Redpath avanzò di due passi, guardò a destra, nel punto in cui dall’atrio la sua visuale era bloccata dalla porta. C’era un’altra porta, stranamente dipinta di rosso scarlatto. Come in sogno, con una sensazione d’irrealtà, Redpath protese la destra verso la maniglia.
“Ehi, amico, lascia stare! Mi è venuta in mente una spiegazione perfetta. È tutta colpa del Composto Centottantatré! Conosci i particolari della cucina perché li hai assorbiti, per via telepatica, da Betty York o dagli altri. È una cosa che ti succede già da un pezzo. Non è chiaro?
Redpath aprì la porta, vide solo vagamente gli scalini di pietra che scendevano giù nel buio. L’aria era più calda di quanto si aspettasse. Calda e pesante.
Scese due scalini, si fermò al limite della sua visuale, in ascolto.
“Ragazzo mio, ma lo stai facendo sul serio? Lo sai cosa stai facendo, no? È come in quei vecchi film dell’orrore, quando l’eroe è tanto stupido da andarsi a cacciare fra le zampe del mostro. E i bambini che guardano il film tremano di paura, gli urlano di tornare indietro, ma lui no, va avanti. Sul serio, John, credevo che tu avessi un po’ più di cervello…”
Redpath scese un altro gradino e si fermò di nuovo, cercando di penetrare le tenebre. Sotto, qualcosa si mosse con un risucchio viscido, ripugnante.
Slughhh. Slughhh. Slughhh.
Tornò indietro di uno scalino, scosse la testa. Fra le cose che in genere si trovano in una vecchia casa, cosa poteva produrre quel rumore?
Slughhh. Slughhh. Slughhh.
— D’accordo, casa. Hai vinto — mormorò Redpath. Risalì le scale e chiuse la porta rossa. Ormai non gl’importava più che lo sentissero. Corse nell’atrio, arrivò all’ingresso. La porta esterna era chiusa da due catenacci e da una serratura Yale, ma Redpath fu veloce, abilissimo.
Dopo qualche secondo era già sulla strada, sotto il sole timido dell’alba, e correva via.
Seconda parte
6
Osservando la città che tornava alla vita di tutti i giorni, Redpath ritrovò fiducia nell’esistenza della normalità; ma fu un’esperienza dolceamara. Fra lui e le altre persone si era creata una barriera estremamente solida. Si sentiva un estraneo, spinto da motivi artificiali, come un giornalista televisivo che cercasse di assorbire l’atmosfera di Calbridge per un documentario. Trascorse ore a passeggiare in centro, a bere caffè nei bar semibui; scrutò le facce di un migliaio di persone, e capì che nessuno aveva mai pugnalato un altro essere umano, che tutti sapevano operare distinzioni nette fra realtà e illusione, che non si erano mai permessi di credere che una vecchia casa fosse viva e malvagia. Era completamente solo, tagliato fuori.
Quando si sentì pronto ad affrontare la polizia, guardò l’orologio. Erano esattamente le nove. Chissà se il suo inconscio aveva aspettato l’orario in cui la polizia riprendeva l’attività normale. Da un inconscio come il suo c’era da aspettarsi di tutto. Posò l’ennesima tazza di caffè, bevuta a metà, uscì e si avviò verso il centro. Camminò per più di un chilometro verso il posto di polizia più vicino, un edificio a due piani, di mattoni rossi e blu. Sul fianco, un cancello portava al parcheggio interno per le macchine di servizio.
Stava salendo gli scalini, quando un’auto grigia spuntata dal parcheggio si fermò improvvisamente davanti al cancello. Le gomme stridettero. Il finestrino dalla parte dell’autista si abbassò. Redpath si trovò a fissare la faccia vagamente familiare, pallida, di un uomo dalla corporatura robusta. “Pardey” pensò. “Frank Pardey. Ma come faccio a conoscerlo?”
— Voi — disse freddamente Pardey, puntando l’indice come una pistola. — Venite qui!