Al pensiero di recarsi alla polizia, di denunciare il delitto, di veder tutto ridotto alle dimensioni di una pratica chiusa in archivio, Redpath provò il desiderio di andarsene dalla casa, di tagliare i ponti con quella gente assurda. Guardò l’orologio, vide che erano le cinque e trentatré e cercò di caricarlo senza toglierlo dal polso. Le sue dita continuavano a scivolare sulla rotellina sporgente, e allora si accorse di essere gelato. Prese il giubbotto, se lo infilò, tirò la cerniera lampo fin sotto il mento, per intrappolare il calore del corpo. Stava battendo i denti, e nel silenzio della stanza il rumore che facevano era terribilmente forte.
“Eccoci qua, ragazzo mio. Sei libero di andartene.”
“Davvero?”
Era di nuovo un essere razionale, e ne era contento; però gli venne il sospetto che fosse tutto troppo facile, troppo semplice, che non gli avrebbero permesso di uscire e di immergersi nel grande fiume della normalità. La casa e le persone che ci vivevano sembravano possedere una personalità composita, sfaccettata; e l’istinto gli diceva che quella personalità mancava di qualcosa, e che non avrebbero acconsentito facilmente a lasciarlo andare. Forse era meglio rimandare la fuga fino a che non ricominciasse la vita della città. Sarebbe stato più tranquillo, più sicuro, se aveva attorno altra gente cui chiedere aiuto.
“Non dire idiozie, uomo! A cosa stiamo giocando?”
Redpath si maledisse: si lasciava sempre travolgere da fantasie infantili. Roba da film. Aprì la porta della stanza. Il pianerottolo era buio e deserto.
“Certo che è deserto! Chi ti aspettavi? Bela Lugosi? Oppure quella bambina dell’Esorcista, Linda Blair, con la testa girata dall’altra parte e la vestaglia sporca di vomito verde? Insomma, non dire idiozie!”
Curioso e un po’ intimidito, Redpath uscì sul pianerottolo e si fermò ad ascoltare i suoni della casa. Dalla porta di fronte giungeva un russare debole, segno che Wilbur Tennent stava ancora dormendo. Rassicurato da quel particolare normalissimo, Redpath scese piano le scale, arrivò al pianerottolo successivo. La porta della prima stanza, quella che secondo lui era occupata da Betty York. era leggermente aperta. L’oltrepassò in punta di piedi, per paura di svegliarla. La camera della signorina Connie, poi giù per tre gradini. Da lì poteva vedere tutto il retro della casa.
La finestra in fondo al pianerottolo era illuminata dal sole dell’alba. Il giglio giallo se ne stava immobile al centro, come un uccello da preda in agguato. Redpath sentì di nuovo l’aroma di chiodi di garofano, che svanì immediatamente. “È un profumo che non esiste” pensò. “Un aroma immaginario. Sinestesia.”
Distolse gli occhi dalla porta del bagno, leggermente socchiusa, lontana solo due passi, e scese al pianterreno. Adesso doveva solo oltrepassare le due porte, uscire (a meno che non fossero chiuse a catenaccio e che la chiave non fosse infilata nella serratura), incamminarsi per strada nella quiete del primo mattino, verso Woodstock Road. Era libero, libero! L’idea di dover perdere tempo con la serratura, col pericolo che qualcuno gli arrivasse alle spalle, lo spinse a voltarsi, a guardare verso la cucina. La porta della cucina era spalancata. Nel chiarore grigiastro della stanza, vide qualcosa di bianco sospeso a mezz’aria, come una falena gigantesca.
Redpath si portò una mano alla bocca, e anche l’oggetto bianco si mosse: stava guardando il riflesso della propria faccia in uno specchio. Si immobilizzò. Correre via in quel momento sarebbe stato come dichiararsi sconfitto. Poi, col cuore che batteva fortissimo, decise di fare un esperimento. Si spostò lentamente di lato, e l’immagine riflessa dallo specchio scomparve, in ossequio alle leggi dell’ottica. Lo specchio era davvero uno specchio, e le care vecchie leggi della fisica erano ancora valide. Dal punto in cui si trovava adesso, lo specchio gli rimandava l’immagine di una macchia color rosso scarlatto, che identificò subito: la porta che dava in cantina. Annuì, soddisfatto; si avviò verso l’ingresso, e si fermò di colpo.
“Ma cosa sta succedendo? Io non ho mai visto quella porta rossa. L’ho vista solo in un incubo, quando credevo di essere finito nello stomaco della casa!”
Redpath restò perfettamente immobile, cominciò a carezzarsi il mento ispido, cercando spiegazioni. La spiegazione più ovvia, quella che i ricercatori usavano sempre per mettere a tacere gli individui che sostenevano di fare sogni precognitivi, era che in realtà lui avesse intravisto la porta rossa, senza rendersene perfettamente conto. Una buona spiegazione. Un ragionamento lucido, impeccabile; ma il guaio era che non riusciva ad accettarlo. Era assolutamente sicuro che le poche volte in cui si era trovato nell’atrio la porta della cucina fosse chiusa, per cui gli sarebbe stato impossibile intravedere qualcosa.
Molto bene. Se una spiegazione non funziona, bisogna trovarne un’altra. Ma perché mai doveva cercare una spiegazione? Perché non si accontentava di uscire, visto che il momento era propizio?