Читаем La missione di Sennar полностью

Quando la guerra dei Duecento Anni finì e Nammen, il re dei mezzelfi, prese il potere su tutto il Mondo Emerso, sulla Terra del Fuoco regnava Daeb, un re né migliore né peggiore di tanti altri.

Le volontà del nuovo sovrano sovvertirono l’ordinamento politico ottenuto con anni di battaglie: Nammen decise che le Terre da lui conquistate fossero restituite ai legittimi popoli, destituì tutti i regnanti e stabilì che ogni Terra eleggesse il proprio re.

Alcune Terre vollero mantenere i propri monarchi, altre ne scelsero di nuovi. Nella Terra del Fuoco, tuttavia, il popolo degli gnomi non ebbe la possibilità di eleggere nessuno. La decisione di Nammen scatenò una guerra intestina tra le famiglie nobili, che portò all’assassinio di Daeb e all’esilio forzato del suo primogenito Moli.

Moli era giovane, ma giurò che non avrebbe mai dimenticato quel che era accaduto e che prima o poi si sarebbe ripreso ciò che gli spettava.

Si stabilì nella Terra delle Rocce e sposò Nar, una ragazza del posto, gnomo anche lei, da cui ebbe due figli: Ido e Dola.

Moli amava i suoi figli, ma la sola cosa che davvero contasse per lui era la vendetta. Aveva un solo pensiero: riprendersi la corona e vendicare il padre.

Ido e Dola impararono a maneggiare la spada fin da piccoli. Quando non era in viaggio per il Mondo Emerso in cerca di alleanze, Moli li addestrava personalmente.

Ido era solo un bambino, ma era bravo con le armi. Il padre gli ripeteva di continuo che sarebbe diventato re. Gli diceva di odiare chi aveva tolto loro il trono e lui odiava. Gli diceva che avrebbe dovuto uccidere il nemico e lui annuiva convinto. Lo mandò all’Accademia dei Cavalieri di Drago che era appena un ragazzino: fu lì che conobbe Vesa, fu lì che imparò tutto.

Dola era diverso; era gracile, non era portato per il combattimento, si ammalava facilmente. E poi era il figlio minore: non doveva ereditare il trono, bastava che al momento giusto fosse capace di lottare. Moli lo tormentava, lo costringeva ad allenarsi sotto la pioggia battente, cercava in tutti i modi di farne un guerriero. Dola si impegnava come può impegnarsi un bambino che vuole compiacere il padre: si allenava da solo, metteva l’anima in quel che faceva, ingoiava insulti e angherie.


Fu subito dopo la nomina di Ido a Cavaliere che avvenne la svolta.

Moli si mise in contatto con un giovane mago molto ambizioso che gli assicurò il suo appoggio per riconquistare il trono usurpato a Daeb. Prese a recarsi sempre più spesso nella Grande Terra e quando tornava da quei viaggi sembrava soddisfatto.

Un giorno dovette partire per la Terra della Notte e volle che Ido e Dola lo accompagnassero. Raggiunsero un luogo sperduto, una sorta di palazzo incuneato tra le montagne, impossibile da trovare per chi non ne conoscesse l’ubicazione.

Là Ido e Dola conobbero per la prima volta l’uomo in cui loro padre credeva ciecamente. O meglio conobbero la sua voce, perché l’uomo si celava dietro un pesante tendaggio nero. Una voce indecifrabile, senza età, non umana.

«Questi sono i miei figli, signore» disse Moli, in un tono servile che colpì Ido.

«Qual è il maggiore?» chiese la voce.

Moli spinse avanti Ido. «È lui, mio Signore.»

“Mio signore”, così disse Moli. Ido non capiva: suo padre era un re e lui un principe, nessuno poteva essere il loro signore. Era a disagio. Non poteva vedere quell’uomo, eppure sentiva il suo sguardo su di sé.

L’uomo dietro la tenda gli chiese se rivoleva il suo trono.

Ido rispose che sì, certo che lo voleva.

L’uomo non disse altro.

Poi fu la volta di Dola. Con lui parlò a lungo e a Ido sembrò che lo avesse preso in simpatia.


Due mesi dopo quell’incontro, Moli disse ai figli che dovevano tornare nella Terra della Notte e pianificare l’attacco alla Terra del Fuoco. Ad attenderli avrebbero trovato un esercito.

Ido e Dola rientrarono nel palazzo dell’uomo senza volto. L’esercito c’era, grande e numeroso, e Ido sentì il sangue scorrere veloce nelle vene: il grande giorno era arrivato! Finalmente, dopo anni di soprusi e di esilio, si sarebbero ripresi ciò che era loro.

C’era molta altra gente dall’uomo velato, gente che Ido non conosceva. Fu quello il giorno in cui il Tiranno ascese al potere e Ido era lì. Non gli interessava sapere che cosa quell’uomo stesse tramando, né perché. Voleva solo la sua corona, e per quella lottò.

Fu la sua prima guerra. La campagna durò tre mesi, fu lunga e faticosa, fu ferito più di una volta e rischiò la vita, ma niente sembrava fermarlo. Combatteva per la sua famiglia, per la sua corona. Quel sogno lo accecava. Dola invece combatté solo all’inizio, poi prese a trascorrere periodi sempre più lunghi nel palazzo dell’uomo velato. Il Tiranno, come si faceva chiamare ora.

Ido giunse in vista di Assa, la capitale della Terra del Fuoco, un giorno di luglio. Aveva attraversato un paese in rovina e la popolazione lo aveva salutato come un salvatore. Era poco più di un ragazzo e tutte quelle braccia tese, la gratitudine della gente, la vittoria gli diedero alla testa. Si sentì un eroe e con quella convinzione raggiunse il palazzo reale, che le truppe comandate da Moli avevano già messo a ferro e fuoco.

Il re usurpatore e tutti i suoi familiari erano stati riuniti nella sala del trono. Il sovrano implorò di avere salva la vita.

Moli ascoltò in silenzio, sorridendo. Poi guardò Ido e gli porse la spada. «A te l’onore» disse.

Ido si avvicinò e lo trafisse senza pietà. Aveva già ucciso, ma sempre in battaglia. Gli piacque togliere la vita a quell’uomo che non conosceva. Gli piacque vedere la disperazione della sua famiglia. Quel giorno diventò un assassino.


I mesi successivi furono dedicati alla vendetta. Moli fece uccidere o imprigionare tutti coloro che avevano appoggiato il vecchio re e inaugurò col sangue la nuova era. Ido invece si dedicò ai piaceri della vita. Divenne uno sfaccendato. Passava le giornate a corte e le notti a fare baldoria tra donne e birra, si disinteressava di quello che accadeva fuori dai confini della sua Terra. Non aveva altro scopo nella vita che godersi quella corona che suo padre gli aveva promesso da sempre. Finché un giorno Moli non lo convocò.

«Il Tiranno vuole che tu vada da lui» disse in tono grave.

«E perché?» sbuffò Ido. «Non ci penso neppure!»

«Ti ricordo che abbiamo un debito con lui, Ido. Tuo fratello lo ha già raggiunto nella Grande Terra. Partirai stasera stessa» ordinò Moli e con questo chiuse la discussione.

Nella Grande Terra Ido trovò enormi cambiamenti: dove un tempo sorgeva il palazzo del Consiglio era in via di costruzione un’immensa torre di cristallo nero. Il Tiranno stava edificando la sua Rocca. Per il momento non era che una massiccia base ottagonale alta non più di quattro piani, ma era maestosa e impressionante. Le pareti mandavano bagliori funebri, le finestre erano alte ogive spalancate come orbite in un cranio. Ai lati della torre centinaia di schiavi lavoravano giorno e notte ad altri otto edifici minori: i tentacoli che in futuro avrebbero insidiato ciascuna delle Terre libere.

Fu Dola ad accogliere il fratello e ad accompagnarlo nel salone delle udienze. Ido quasi non lo riconobbe: non era più il ragazzo gracile e fragile che conosceva. Sembrava cresciuto, aveva un’aria spavalda ed era vestito da guerriero.

Il Tiranno si celava, come sempre, dietro una pesante cortina nera. La sua voce risuonava nel salone come se provenisse dall’aldilà.

«È ora che tuo padre estingua il suo debito. D’ora in poi tu e tuo fratello combatterete per me» disse il Tiranno.

Ido tentò di protestare, ma il Tiranno lo interruppe bruscamente: «Questa è la mia decisione. Ed è anche quella di tuo padre, perché il mio volere e il suo sono tutt’uno, Ido. Ricordatelo». Fu così che Ido entrò nell’esercito del Tiranno. Ebbe un’armatura e una spada sulla cui elsa era inciso il giuramento di fedeltà al Tiranno. All’inizio non aveva molti uomini sotto di sé, perché il Tiranno non disponeva ancora di un esercito vero e proprio: erano i vecchi re destituiti da Nammen a fornirgli uomini e armi.


Ido fu distaccato sul fronte della Terra della Notte. Là imparò davvero il mestiere delle armi. Il Tiranno fece di lui un guerriero. Più passava il tempo, più la guerra gli entrava nell’anima. Amava il combattimento fine a se stesso, amava l’odore del sangue che ritrovava la sera sulla pelle, amava il terrore che incuteva nei nemici.

Il Tiranno diede uno scopo alla sua vita: uccidere. Più uccideva, più era temuto e più era temuto, più si sentiva forte. Quando scendeva sul campo di battaglia, la sua spada non si fermava finché non erano tutti a terra. Non aveva paura del dolore, non aveva paura della morte. Se non combatteva, non si sentiva vivo.

Tornava ad Assa di rado. La vita di palazzo che aveva amato tanto ora gli dava la nausea. Il padre non gli sembrava più lo stesso. Era invecchiato e ai suoi occhi era diventato un piccolo uomo meschino, in ansia per la sorte dei suoi figli e del suo regno, sul quale aveva sempre meno potere. Quando lo andava a trovare, Moli non faceva che piagnucolare, si lamentava delle tasse che doveva al Tiranno, degli uomini che il suo esercito gli strappava. Gli ripeteva che sentiva il fiato del Tiranno sul collo, lo supplicava di non lasciargli prendere la loro Terra.

Invece vedeva spesso Dola e ogni volta non si capacitava che fosse lui. Iniziava a farsi un nome come guerriero e aveva parecchie truppe sotto di sé. I suoi soldati lo temevano e lo rispettavano, e presto la sua fama fu maggiore di quella del fratello.

Ido iniziò a esserne geloso.

Poi il Tiranno lo convocò e gli disse che aveva un regalo per lui. Fu allora che lo mise a capo di una truppa di fammin. Da quel giorno, per dieci anni, Ido non fece altro che combattere.


Il Tiranno aveva fatto dono a Dola di un drago nero, un animale spaventoso che sembrava uscito dalle viscere della terra. In groppa a quella bestia, l’ascesa di Dola come guerriero sembrava giunta al culmine. Più di una volta Ido aveva guardato il drago nero con invidia. Vesa non reggeva il confronto.

«Voglio metterti alla prova, Ido» disse il Tiranno. «Se porterai a termine la prossima missione, avrai anche tu un drago nero e nuove truppe sotto il tuo comando. Soddisfami e ti renderò potente.»

La Terra della Notte era stata conquistata da più di un anno, ma lungo i confini erano ancora insediati numerosi gruppi di ribelli. Ido ricevette un contingente di duecento fammin e un solo ordine: sterminare.


La cittadella gli apparve da lontano, immersa nel buio perenne della Terra della Notte. Era piccola, una trentina di casupole di legno protette da un robusto steccato e neppure una sentinella a presidiarne l’ingresso.

Ido si aspettava che i ribelli stessero all’erta, ma non si fece domande. Anzi, si rallegrò: aveva dalla sua la sorpresa. Lanciò i fammin all’attacco e si alzò in volo con Vesa per tempestare di fuoco le capanne.

Ci mise un po’ a capire. I fammin non incontravano resistenza. Le uniche urla che sentiva erano di donne e bambini. Il Tiranno lo aveva mandato a sterminare un villaggio di mezzelfi. Si erano stabiliti lì dopo essere fuggiti dalla Terra dei Giorni. All’epoca erano già in pochi.

Ido aveva combattuto molto in quei dieci anni. Aveva ucciso senza scrupoli, aveva passato a fil di spada chi implorava pietà. Non aveva alcuna morale, non gli interessavano il bene e il male, degli altri non gli importava niente.

Ma quella volta, quando vide le sue truppe infierire su chi fuggiva, finire i feriti a morsi, gettarsi sui cadaveri, qualcosa in lui si ribellò. Quei nemici non erano soldati: era gente disarmata, che chiedeva solo di vivere in pace.

Planò con Vesa sulla mischia e ordinò la ritirata, ma i fammin non gli obbedirono. Gridò ancora, sempre più forte, senza risultato. Allora si lanciò sui suoi soldati, li finì uno dopo l’altro con la spada, ma fu tutto inutile. I fammin gli si rivoltarono contro e lo ferirono gravemente. Riuscì a salvarsi solo grazie a Vesa. Si mise al riparo in cima a un picco e assistette alla strage dall’alto.

Quando fu tutto finito scese a terra, smontò da Vesa e attraversò il villaggio a piedi. Si sentiva sul punto di impazzire. Era troppo. Era troppo anche per lui. Non voleva più combattere per quell’uomo, mai più.

Decise di tornare ad Assa. Fu costretto a battere strade poco percorse. Era ferito, ma soprattutto era un traditore. Ido non sapeva perché stesse andando da suo padre, non sapeva che cosa lo tenesse ancora in piedi, non sapeva più nulla. Fu un viaggio terribile. Poi raggiunse la Terra del Fuoco e la realtà gli si presentò in tutta la sua crudezza. La popolazione era tenuta in schiavitù, nei villaggi si respirava la disperazione. Le donne erano sole a occuparsi della terra, i bambini erano magri e laceri, gli uomini lavoravano nelle fucine nei pressi dei vulcani del regno per produrre armi.

Quando Ido arrivò al palazzo reale, lo trovò presidiato dalle guardie del Tiranno. Lo fermarono e lo trascinarono in catene nella sala del trono.

Seduto sullo scanno non c’era Moli ma Dola, irriconoscibile. Sul capo aveva la corona che era stata di suo padre. Ai piedi, accucciato, l’immenso drago nero guardava Ido con occhi di brace e sembrava ridere di lui.

«Fratello mio» esordì Dola in tono condiscendente «sai che il Tiranno è adirato con te?»

«Dov’è nostro padre?» chiese Ido, stremato.

Dola alzò le spalle. «Purtroppo è morto qualche settimana fa. Mi dispiace, non avrei voluto che tu lo venissi a sapere in questo modo...»

«Maledetto! L’hai ucciso!» gridò Ido, ma le guardie lo sbatterono a terra.

«È stata la sua stoltezza a ucciderlo» rispose Dola. «Perché fai finta di non capire, Ido? Perché non vuoi che il Nostro Signore si prenda cura di te? Guardami: il Tiranno mi ha reso potente, mi ha dato un corpo e una forza invincibili.»

Ma Ido non capiva, non riusciva a capire. «Tu sei pazzo...»

Dola scoppiò a ridere. «Il pazzo sei tu, se rinunci a questo. Ido, cosa vuoi che sia la vita di nostro padre, la vita degli inetti che ci circondano, di fronte al Potere? Tutto ci sarà permesso, potremo tutto, perché il Tiranno può tutto. Contribuiremo alla creazione di un nuovo ordine. Pensaci, Ido. Torna da lui e prostrati ai suoi piedi: ti perdonerà.»

La rabbia di Ido esplose. «Hai venduto la tua anima, Dola! Hai ucciso nostro padre e venduto la tua anima!» gridò mentre le guardie lo trascinavano via.

«Hai tempo fino a domani per decidere, fratello mio: o torni al servizio del Tiranno o sarai ucciso» concluse Dola.

Ido venne rinchiuso nella fortezza adiacente al palazzo, dove un tempo risiedevano le guardie personali di suo padre.

Era disperato per la morte di Moli e il peso della vita che aveva condotto fino a quel giorno gli franò addosso. Aveva permesso al Tiranno di compiere atti atroci, lo aveva aiutato a ottenere il potere, aveva lasciato che uccidesse suo padre e che distruggesse la vita dei suoi sudditi.

A salvarlo fu Vesa. In dieci uomini provarono a trattenerlo, ci si mise anche un mago, ma la forza di quell’animale sembrava indomabile. Il drago incenerì chiunque si trovasse sulla sua via e scappò dalle scuderie dopo averne sfondato una parete. Sorvolò a lungo la fortezza dove era rinchiuso Ido, levando alto il suo ruggito, incurante delle frecce che gli si incuneavano nella pelle. Poi scese in picchiata, abbatté le mura e trascinò il suo padrone al sicuro, oltre il fronte.

Ido si rifugiò nella Terra del Vento. Non aveva più un posto dove andare, un motivo per cui vivere. Fu allora che decise di consegnarsi all’esercito di quella Terra. Pensava che fosse giusto che a punirlo con la morte fossero coloro che aveva combattuto. Si presentò in un accampamento, gettò a terra la spada e chiese di essere arrestato. Quando i soldati lo riconobbero, sporco, lacero e ferito, restarono impietriti: non era mai capitato che un nemico si consegnasse spontaneamente. Il generale dell’accampamento ordinò che Ido venisse giudicato dal Consiglio dei Maghi.

I giorni prima di comparire di fronte al Consiglio furono i peggiori della sua vita. Era perseguitato dal ricordo del villaggio che aveva distrutto, dalla consapevolezza che quelle donne e quei bambini non sarebbero mai più tornati.

Ido fu condotto in catene al cospetto dei consiglieri. Disse loro tutto ciò che sapeva sull’esercito del Tiranno e sulle sue strategie future. Raccontò loro tutto quello che aveva fatto. Prima di essere riportato in cella, li pregò di ucciderlo.

Quella notte andò a fargli visita un consigliere. Il suo nome era Dagon.

«Con la tua morte non otterrai niente, Ido. La morte non laverà i tuoi peccati, non ti renderà un uomo migliore» gli disse. «Ma se vivi, dalla tua disperazione può nascere qualcosa di buono.»

Ido non capiva il senso delle sue parole.

«Il dolore per le tue azioni sarà sempre con te. La tua espiazione sarà il ricordo» continuò Dagon. Poi lo guardò negli occhi. «Sei un guerriero potente, Ido. Sono venuto a proporti di lottare per abbattere il Tiranno, per impedire che prenda possesso di altre Terre. È una mia iniziativa. Se vorrai morire, il Consiglio non si opporrà e sarai giustiziato. Ma se vorrai combattere nell’esercito delle Terre libere, farò di tutto perché tu possa avere un posto nelle sue file. Ora sta a te scegliere.»

Ido ci pensò a lungo. Era davvero possibile ricominciare? Poteva diventare un’altra persona? Non aveva mai considerato la possibilità di combattere per qualcuno: non per il potere, non per una corona, non per uccidere, ma per qualcuno.

Quando la settimana seguente si presentò al Consiglio, Ido accettò la proposta. Ovviamente non tutti i consiglieri e i vertici militari furono d’accordo. Soprattutto Raven, il Supremo Generale, che fu tra i suoi più accaniti detrattori.

Dagon, però, si assunse la responsabilità delle azioni dello gnomo.


Ido fu messo a fare il fante.

Il giorno della sua prima battaglia, Dagon andò a restituirgli la spada. Quando gliela porse, lo gnomo la guardò inorridito. Non riusciva neppure a toccarla. «Inciso sull’elsa c’è l’atto di obbedienza al Tiranno» mormorò. «Non posso...»

Il consigliere lo interruppe con un gesto e gli mostrò l’impugnatura: le rune del giuramento erano state grattate via; al loro posto c’era solo un’ampia abrasione.

«Non credere di poter ricostruire la tua vita ignorando le macerie, Ido» disse Dagon. «Il dolore svanirà, ma il ricordo no. Quest’arma è la testimonianza di quello che sei stato e il pegno che non sarai mai più come allora.»

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