Читаем La velocità del buio полностью

Mentre leggo, altre icone si accendono sullo schermo: il logo della società autistica locale, quello di Cameron e quello di Dale. Allora anche loro hanno saputo questa notizia. Per il momento li ignoro e continuo a leggere. Anche se qui si parla di cervelli come il mio, questo non è il mio campo e non riesco a capire come si pensa che funzioni il trattamento. Gli autori continuano a riferirsi ad altri articoli dove i procedimenti vengono spiegati più diffusamente. Ma quegli articoli non sono accessibili: non a me e non stanotte. Io non so cosa sia "il metodo di Ho e Delgracia". Non so neppure il significato di molti vocaboli, e il mio dizionario non li riporta.

Quando guardo l'orologio, è passata mezzanotte. Devo andare a letto, devo dormire. Spengo lo schermo, carico la sveglia; nella mia mente i fotoni corrono dietro al buio ma non lo raggiungono mai.


Al campus il giorno dopo siamo tutti riuniti dell'atrio, senza guardarci in viso. Tutti sanno.

— Credo sia un'impostura — dice Linda. — Non è possibile che funzioni.

— Ma se funzionasse… — suggerisce Cameron — se funzionasse, potremmo essere normali.

— Io non voglio essere normale — si oppone Linda. — Io sono così, e sono felice. — Ma non ha un'aria felice: ha un'aria cupa e decisa.

— Anch'io — dice Dale. — Anche se funziona per le scimmie, cosa significa? Le scimmie non sono persone, sono più primitive di noi. Le scimmie non parlano. — La sua palpebra vibra più del solito.

— Noi già comunichiamo meglio delle scimmie — dice Linda.

— A me però piacerebbe non dover farmi vedere da un psichiatra ogni quadrimestre — dice Cameron.

Penso alla dottoressa Fornum: sarei tanto più felice se non dovessi andare da lei. E lei, sarebbe felice di non dovermi vedere?

— Lou, e tu che ne dici? — chiede Linda. — Tu già vivi in parte nel loro mondo.

Ma tutti noi lo facciamo, noi che abbiamo un lavoro e conduciamo una vita indipendente. Linda però non ama far nulla con gente che non sia autistica, e già prima ha detto che secondo lei io non dovrei farmela col gruppo di schermidori di Tom e Lucia o con la gente della mia Chiesa. Se sapesse quali sono i miei sentimenti verso Marjory, probabilmente direbbe cose cattive.

— Io me la cavo abbastanza bene. Non capisco perché dovrei cambiare. — Sento che la mia voce è più dura del solito, e vorrei che questo non mi accadesse quando sono turbato. Non sono in collera e non mi va di avere la voce di uno in collera.

— Vedi? — dice Linda rivolta a Cameron, che distoglie lo sguardo.

— Devo lavorare — dico, e vado nel mio ufficio dove accendo il ventilatore e guardo le lucine colorate girare e ammiccare. Vorrei rimbalzare un po', ma non voglio essere in palestra nel caso arrivasse il signor Crenshaw. Mi sento il petto oppresso e non riesco a interessarmi al problema al quale sto lavorando.

Mi chiedo come sarebbe essere normale. Allorché uscii dalla scuola mi costrinsi a non pensarci più; adesso, quando mi ritorna in mente, mi affretto a scacciare l'idea. Ora però… cosa significherebbe non doversi preoccupare che la gente pensi che sono matto quando balbetto o quando non posso rispondere e devo scrivere sul mio taccuino? Cosa significherebbe non dover portare sempre in tasca quel mio cartoncino? Essere in grado di vedere e sentire tutto? Sapere cosa pensa la gente solo interpretando la sua espressione?

L'insieme di simboli su cui sto lavorando di colpo mi appare del tutto privo di significato.

È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all'infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.

Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.

Quando torno a emergere è passata l'ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.

Mangio una mela e qualche chicco d'uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.

Il pomeriggio pare trascinarsi all'infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c'è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.

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