Gli venne un'idea: raggiungere il vano del motore e localizzare la bombola di aria compressa; forse avrebbe potuto usarla per svuotare dall'acqua la cassa di immersione rapida. Probabilmente si sarebbe rivelato un tentativo inutile, ma almeno avrebbe mantenuto il Triton vicino alla superficie per qualche minuto, prima che il cassone bucato riprendesse a riempirsi.
E poi?
Al momento quella gli parve la sua unica possibilità. Per prepararsi all'immersione, inspirò molto profondamente, espandendo i polmoni fino al limite. "Più capacità polmonare, più ossigeno, immersione più lunga" pensò. Ma, gonfiandosi e sentendo la pressione crescere nel torace, concepì una strana idea: e se avesse aumentato la pressione
Espirò e rimase in superficie, cercando di valutare la fattibilità dell'idea. Sembrava perfettamente logica. Dopotutto, i sottomarini sono progettati per resistere alla pressione solo in un senso. Devono sopportare un'enorme forza dall'esterno, ma pochissima dall'interno.
Inoltre, le valvole installate sul batiscafo erano tutte uguali: un accorgimento per semplificare la manutenzione. Tolland avrebbe potuto staccare il tubo che serviva a riempire la bombola di aria compressa e collegarlo a una delle valvole di aerazione di sinistra. Rachel avrebbe avvertito un forte dolore, ma la pressurizzazione della cabina forse le avrebbe aperto una via di scampo.
Michael si riempì i polmoni e si tuffò.
Il batiscafo era adesso a un paio di metri. L'oscurità e la corrente rendevano difficile orientarsi.
Tolland trovò il serbatoio d'aria compressa e ridiresse il tubo, collegandolo alla valvola nella cupola. Strinse la valvola, preparandosi a pompare aria nell'abitacolo. Un segnale di pericolo, scritto a lettere gialle catarifrangenti sulla grossa bombola, gli ricordò quanto fosse rischiosa la manovra che stava per compiere: PERICOLO: ARIA COMPRESSA A 200 ATMOSFERE.
"Duecento atmosfere. Più di duecento chili per centimetro quadrato" pensò. Se la cupola del Triton non fosse stata soffiata via dalla pressione, i polmoni di Rachel si sarebbero schiantati. Praticamente, era come pompare con un idrante acqua ad altissima pressione in un palloncino nella speranza che questo scoppiasse presto.
Decise di agire. Sospeso sulla groppa del Triton, aprì la valvola. Il tubo si irrigidì e Tolland sentì l'aria che, con enorme forza, invadeva il batiscafo.
Nell'abitacolo, Rachel avvertì una fitta lancinante alla testa. Spalancò la bocca per urlare, ma l'aria si aprì la strada nei suoi polmoni con tanta pressione che le parve di scoppiare. Le sembrò che gli occhi le venissero spinti dentro il cranio. Un rombo assordante le risuonò nei timpani, portandola sull'orlo dello svenimento. Istintivamente sollevò le mani alle orecchie. Il dolore aumentava.
Udì un colpo provenire direttamente da un punto davanti a lei. Sforzandosi di tenere gli occhi aperti, scorse la confusa sagoma di Michael Tolland nel buio. Con il volto contro il vetro, le stava segnalando qualcosa.
"Ma cosa?"
Nell'oscurità, riusciva a malapena a distinguerlo. Aveva la vista annebbiata per via della deformazione delle cornee dovuta alla pressione; ciononostante si rendeva conto che il Triton era affondato sotto le ultime tremolanti dita di luce dei fari sottomarini della
Tolland si distese sulla cupola del Triton e continuò a battere i pugni sul perspex. Il petto gli bruciava per il bisogno d'aria, e presto sarebbe dovuto ritornare in superficie.
"Spingi sul vetro!" le ordinò. Sentiva l'aria compressa sfuggire attraverso il bordo del finestrino, dove la guarnizione si era deteriorata, e risalire sotto forma di bollicine. A tastoni andò in cerca di un appiglio, una fessura sotto cui insinuare le dita. Niente.
Mentre esauriva l'ossigeno, perse la visione periferica. Colpì il perspex un'ultima volta. Non riusciva neanche più a vederla. Troppo buio. Con quel poco di aria che gli rimaneva nei polmoni urlò sott'acqua.
«Rachel… spingi… sul… vetro!»
Le sue parole si tramutarono in un sordo e incomprensibile balbettio.
129
Dentro il Triton, Rachel aveva l'impressione di avere la testa imprigionata in uno strumento di tortura medievale. In piedi, china sul sedile dell'abitacolo, sentiva la morte aleggiare su di lei. Dall'oblò semisferico d'osservazione non si vedeva più nulla. Buio. I colpi erano cessati.
Tolland era andato via. L'aveva abbandonata.
Il sibilo dell'aria pressurizzata che entrava a getto dall'alto le ricordò l'assordante vento catabatico di Milne. Sul fondo del batiscafo c'erano ormai trenta centimetri d'acqua. "Fatemi uscire!" Migliaia di ricordi e pensieri iniziarono ad affollarsi nella sua mente come lampi di luce violetta.