Читаем Le fontane del Paradiso полностью

C'era il ponte snello (troppo snello!) e aggraziato, teso al di sopra del canyon. Non c'era traffico; una sola automobile era stata abbandonata a metà dall'autista. Il che non era strano, dal momento che il ponte, si stava comportanto come mai nessun ponte, nell'intera storia dell'ingegneria, si era comportato.

Sembrava impossibile che migliaia di tonnellate di metallo potessero eseguire un balletto aereo di quel tipo. Era più facile credere che il ponte fosse fatto di gomma, non d'acciaio. Ondulazioni enormi, lente, di metri d'ampiezza, percorrevano l'intera lunghezza della campata; l'autostrada sospesa fra i piloni avanzava e si ritraeva come un serpente infuriato. Il vento che soffiava nel canyon intonava una nota troppo bassa perché orecchie umane la percepissero, e raggiungeva la frequenza naturale di quella struttura bellissima, condannata a morte. Erano ore che le vibrazioni di torsione aumentavano, ma nessuno sapeva quando sarebbe giunta la fine. E quei lunghi spasimi d'agonia erano testimoni di una resistenza a cui gli sfortunati progettisti avrebbero rinunciato volentieri.

D'improvviso i cavi di supporto si spezzarono, volando in alto come micidiali fruste d'acciaio. Contorcendosi, capovolgendosi, l'autostrada precipitò nel fiume, e frammenti della costruzione si scagliarono in ogni direzione. Anche se il filmato veniva proiettato a velocità normale, sembrava che il cataclisma finale si svolgesse al rallentatore: la scala del disastro era talmente ampia che la mente umana non possedeva metri di paragone. In realtà tutto durò forse cinque secondi; dopo i quali, il ponte di Tacoma Narrows si guadagnò un posto perenne nella storia dell'ingegneria. Duecento anni più tardi, sulla parete dell'ufficio di Morgan c'era una foto dei suoi ultimi momenti, con la didascalia: "Uno dei nostri prodotti di minor successo".

Per Morgan quella non era una battuta, bensì il monito indimenticabile che l'imprevisto poteva sempre colpire all'improvviso. Durante la progettazione del Ponte di Gibilterra aveva studiato a fondo la classica analisi di von Karman del disastro di Tacoma Narrows, imparando tutto il possibile da uno dei più costosi errori del passato. Nemmeno le peggiori tempeste arrivate dall'Atlantico avevano creato seri problemi di vibrazione, anche se il piano stradale si era spostato di cento metri dalla linea centrale, esattamente come previsto.

Ma l'elevatore spaziale costituiva un tale salto nel buio che le sorprese spiacevoli erano praticamente una certezza. Era facile stimare la forza dei venti sulla sezione atmosferica, ma era anche necessario tener conto delle vibrazioni prodotte dalla partenza e dall'arresto delle capsule; e poi, su una struttura così enorme, degli effetti di marea della luna e del sole. E nessuno di quei fattori si presentava da solo, agivano tutti assieme; poi, magari, di tanto in tanto si sarebbe presentato un terremoto a complica re il quadro, nella cosiddetta analisi del "peggiore dei casi".

— Tutte le simulazioni, nel caso di qualche tonnellata di carico all'ora, dànno lo stesso risultato. Le vibrazioni salgono di continuo finché non si verifica una frattura a circa cinquecento chilometri d'altezza. Dovremo aumentare lo smorzamento, e in maniera drastica.

— È quello che temevo. Quanto ci serve?

— Altri dieci megatonnellate.

Quella cifra diede a Morgan un'amara soddisfazione. Era vicinissima a quella che lui aveva immaginato, usando la sua intuizione di tecnico e le risorse misteriose del suo inconscio. Il computer aveva confermato l'ipotesi: dovevano aumentare la massa "d'àncora" in orbita di dieci milioni di tonnellate.

Anche sulla Terra si trattava di una massa tutt'altro che indifferente; corrispondeva a una sfera di roccia di circa duecento me tri di diametro. Morgan ebbe una improvvisa immagine di Yakkagala come l'aveva vista l'ultima volta, stagliata contro il cielo di Taprobane. Immaginarsi a sollevare "quella" di quarantamila chilometri nello spazio! Per fortuna poteva non essere necessario; esistevano almeno altre due possibilità.

Morgan lasciava sempre che i suoi collaboratori pensassero col proprio cervello. Era l'unico modo per farli sentire responsabili; toglieva a lui molte incombenze, e, in diverse circostanze, i suoi uomini erano giunti a soluzioni che forse lui avrebbe trascurato.

— Cosa suggerisci, Warren? — chiese tranquillamente.

— Potremmo usare una delle chiatte di lancio lunari e scagliare in orbita dieci megatonnellate di roccia lunare. Sarebbe un lavoro lungo e costoso, e avremmo bisogno di una grande base nello spazio per raccogliere il materiale e inserirlo nell'orbita esatta. Inoltre si creerebbe anche un problema psicologico…

— Già, capisco. Nessuno vuole che si verifichi un altro episodio come quello di San Luiz Domingo…

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